Detox. TACO e perché leggere Ernest Hemingway
 

Ci sono quelli che sanno.

I promotori finanziari, ad esempio. Loro vengono a casa vostra a inizio anno, vi danno il nuovo bigliettino da visita (private banker, wealth manager, financial advisor, eccetera) e poi vi spiegano. E il discorso inizia sempre più o meno allo stesso modo:

“… e noi crediamo che quest’anno le obbligazioni … e poi le Borse … e poi il dollaro …”

La guerra tra USA ed IRAN? Sei mesi fa, tutti ci dicevano che “per il 2025 si possono escludere nuovi conflitti di portata internazionale”. Loro, i promotori di prodotti finanziari, a voi dicono sempre che “tutto va bene”.

Il loro scopo è di compiacere la massa, rassicurarla a parole, anche a proposito di quei temi dei quali il promotore finanziario capisce assolutamente nulla. Loro voglio unicamente farvi mettere in portafoglio Fondi Comuni, GPM e polizze.

Anche adesso, anche il 21 giugno 2025, i “promotori finanziari pagati con le retrocessioni sui Fondi, GPM e polizze” sono tutti al lavoro per convincere la massa degli investitori di un’unica cosa: “non può succedere mai nulla, non c’è motivo di preoccuparsi; e poi, anche se succedesse … poi tanto tutti si riprenderà … e quindi, compera i nostri Fondi Comuni, le GPM, le polizze”.

Tutta questa cosa è ridicola, e da più di un punto di vista. E’ sufficiente guardare ai fatti e leggere i quotidiani di stamattina, per avere conferma. Quello del vostro promotore finanziario non è il modo di lavorare, è solo una tecnica per vendere. Vendere ha nulla a che vedere con gli investimenti e con il risparmio.

Quello dei promotori non è il modo di investire, non è il modo in cui si lavora per ottimizzare il portafoglio del Cliente. Cosa evidente alla luce della guerra in corso. Ma non solo: pensate anche alla Federal Reserve, che ha parlato mercoledì sera 18 giugno. Loro, alla Federal Reserve, aggiornano le loro previsioni ogni settimana. E poi comunicano i loro aggiornamenti attraverso conferenze stampa, attraverso le interviste, ed una volta al mese dopo le loro riunioni del Board.

Loro aggiornano con continuità le loro previsioni: questo è il modo di lavorare. E il vostro promotore finanziario invece a gennaio vi racconta dove vanno i mercati finanziari per tutto l’anno? Lui vede avanti di 12 mesi e la Federal Reserve no?

Con il Cliente, Recce’d non ha un atteggiamento così tanto arrogante, e non vende false sicurezze.

Recce’d fa l’opposto: ogni mattina, Recce’d è in contatto con il proprio Cliente, e spiega come vanno rettificate le previsioni, e quindi come cambiano le prospettive per gli asset finanziari nei portafogli modello. Comunica i nuovi rendimenti attesi, ed i nuovi rischi di ribasso e/o perdita su ogni singolo strumento finanziario del nostro universo investibile.

Questo è il modo di lavorare: così si colgono le occasioni che il mercato offre a noi investitori.

Se invece vi affidate a chi vi racconta che “non succederà mai nulla”, allora finirete a perder e parte del vostro denaro, a causa di vostre mosse sbagliate e comunque ritardate rispetto alla realtà (che non riuscite più a comprendere.

Recce’d, in particolare con la serie di Post Detox del 2025, ha voluto concretamente aiutare i propri lettori nella gestione del portafoglio, chiarendo e documentando che anche nel giugno 2025 la guerra NON è il fattore di maggiore peso, per i mercati finanziari, e NON è il fattore decisovo, per la performance dei vostri portafogli titoli.

Molti lettori, distratti dai TG, dai GR, dai social e dai quotidiani, oggi faticano a comprendere ciò che accade proprio sotto i loro occhi: e dimenticano, ad esempio, che per la gestione del loro risparmio i dati del grafico che segue sono più importanti, dell’attacco militare all’IRAN.

E dimenticano, sempre a proposito del grafico, che è proprio da questo che dipende la performance (positiva, oppure negativa) dei loro investimenti finanziari.

Molti investitori, che fanno parte della massa, i dati di questo grafico neppure li conoscono.

Per chi invece già li conosce, potrebbe essere utile rivederli organizzato in modo diverso: nel grafico vedete i dati medi del deficit pubblico USA, calcolati per ognuno dei 4 anni delle diverse Presidenze degli Stati Uniti.

Quale sarà, secondo voi, il dato relativo alla seconda Presidenza Trump, che è in corso? Dalla risposta a questa domanda, potete ricavare una previsione più accurata per i futuri rendimenti dei vostri BTp, in generale dei Titoli di Stato, delle altre obbligazioni, e poi delle valute e poi delle azioni ed anche delle principali materie prime. Quindi, esaminate il grafico con attenzione: vi sarà utile.

Ovviamente, per comprendere nel modo migliore le informazioni che ci vengono fornite dal grafico precedente, occore un lavoro accurato di analisi.

Ovviamente, il lavoro che noi ogni giorno facciamo per i Clienti di Recce’d parte proprio da qui.

In che modo il nostro lettore può ricavare un profitto dalla lettura dei dati che abbiamo visto nelle due immagini?

Oggi con il nostro Post vi proponiamo un percorso lungo tre tappe:

  1. partiremo dalla recente evoluzione della geopolitica, come ci viene imposto dall’attualità di questi giorni

  2. proseguiremo collegando l’attualità del 2025 ai temi del debito (quello delle due immagini) e anche alla Borsa

  3. poi, restringendo l’orizzonte temporale, esamineremo le reazioni dei mercati finanziari ai fatti recenti descritti alla prima delle nostre quattro tappe

Prima di iniziare questo nostro percorso preparato per voi, una piccola digressione: ritorniamo a TACO.

Tutto il 2025, per ciò che riguarda Trump, è stato caratterizzato da un diluvio di annunci, roboanti ed urlati, a cui poi è seguita una caotica marcia all’indietro. La settimana appena conclusa ha visto Trump annunciare (niente di meno) una dichiarazione di guerra all’IRAN, seguita da una quasi immediata retromarcia, come leggete qui sotto.

Il presidente Donald Trump ha nuovamente fissato un termine di due settimane per decidere su una questione complessa: questa volta se gli Stati Uniti debbano lanciare un attacco contro l'Iran.

La scadenza mira a fare pressione su Teheran affinché si sieda al tavolo delle trattative per un accordo nucleare, mentre l'escalation del conflitto tra Israele e Iran entra nella sua seconda settimana.

La diplomazia prima di tutto: "Dato che ci sono concrete possibilità che i negoziati con l'Iran possano svolgersi o meno nel prossimo futuro, prenderò la mia decisione se procedere o meno entro le prossime due settimane", ha dichiarato Trump in un messaggio consegnato dalla portavoce della Casa Bianca, Karoline Leavitt. La scadenza giunge mentre Israele e Iran continuano a scambiarsi attacchi aerei, prendendo di mira siti militari e nucleari, nonché infrastrutture civili.

I ministri degli Esteri di Regno Unito, Francia, Germania e UE incontreranno la loro controparte iraniana a Ginevra venerdì per discutere della situazione. "Il presidente sostiene gli sforzi diplomatici dei nostri alleati che potrebbero avvicinare l'Iran alla conclusione del suo accordo", ha dichiarato un funzionario della Casa Bianca. Mentre proseguono gli sforzi diplomatici, la valutazione di Trump di un possibile attacco all'Iran ha diviso la sua base di sostegno negli Stati Uniti, poiché molti alleati vogliono evitare che si ripeta l'invasione dell'Iraq del 2003.

Di fronte a rapidissimi cambiamenti di posizione dei più grandi leader del Mondo, è bene che tutti noi investitori adottiamo un atteggiamento che unisce pazienza, umiltà ed estrema attenzione.

Non siamo noi, gli investitori finali (famiglie ed Aziende non finanziarie), a determinare gli eventi della realtà. Il nostro compito, in quanto investitori, è di comprenderli, analizzarli, e poi approfittarne per il nostro risparmio.

Non dobbiamo essere ottimisti, e neppure pessimisti. Non dobbiamo essere schierati a favore di questo, oppure di quello. E’ contro il nostro stesso interesse.

Noi investitori non dobbiamo affidarci a visioni “messianiche”: non quelle di Khamenei, e neppure quelle di Trump, non quelle di Elon Musk su AI e “lo tsunami” e neppure quelle di chi vede imminente “la fine del Mondo”.

Noi invece, in quanto investitori, dobbiamo restare sempre lucidi e sempre calmi: il che, non significa (anzi, è tutto il contrario) il “non fare niente” che a voi viene suggerito dalle Mediolanum, dalle General, dalle Allianz, dalle Fideuram, dalle Fineco di questo mondo. Quelli che vi raccontano che “tanto tutto si riprende sempre”: lo fanno unicamente perché … non saprebbero che cosa altro dire.

Anche Recce’d, chiariamo subito, ritiene che non sia questo il momento di mosse azzardate: vero. Al tempo stesso, noi di Recce’d diciamo che è proprio questo il momento di rendersi conto. Di capire che un vecchio modo di investire, che è fondato su un vecchissimo modo di gestire i vostri risparmi, a voi porterà solo perdite e soltanto danni irreparabili. Amici lettori, non fate la follia di rimanere lì seduti ad attendere il prossimo annuncio di Trump: Recce’d sì, che lo può fare: perché i portafogli dei nostri Clienti sono già pronti, e da inizio 2025.

Il Mondo, ve lo possiamo anticipare, continuerà a girare: il nostro compito di investitore è capire come si fa a guadagnare dai forti sconvolgimenti che ci attendono a breve.

Premesso tutto questo, torniamo ora al nostro percorso: e e facciamo il primo step, con il contributo che segue. Vediamo di comprendere, al meglio possibile, che cosa sta cambiando il Mondo nel 2025. Partiamo dunque, leggendo un primo contributo che riassume la recente evoluzione della geopolitica.

Toccherà agli storici stabilire in che misura la guerra deflagrata fra Israele e l’Iran segna un passo in più nel declino dell’influenza degli Stati Uniti nel mondo. Ancora una volta Donald Trump sembra subire gli eventi invece di guidarli, come del resto accade anche a Gaza, nell’aggressione della Russia contro l’Ucraina e altrove. 

L’America resta la superpotenza trionfante sul piano tecnologico, ora più che mai. Ma sta perdendo la sua presa sul sistema internazionale e forse non sarebbe stato molto diverso, se alla Casa Bianca oggi ci fossero Joe Biden o Kamala Harris o persino Barack Obama.

La storia del declino americano

Dai dazi troppe volte annunciati e altrettante volte ritirati o ridiscussi, ai dubbi ormai evidenti sul dollaro quale valuta di riserva e sul debito pubblico degli Stati Uniti quale architrave del sistema finanziario globale, alle guerre che si aggravano, agli scontri in America e agli arresti di massa di migranti nelle strade, fino ai danni delle istituzioni stesse del Paese: quella di Trump nei suoi primi cinque mesi, da quando è tornato, è una storia di declino americano. 

I limiti del leader lo rendono particolarmente visibile. Ma magari non è passeggero. E se la questione è in sé troppo grande per una newsletter di economia, in questa cornice rientrano alcune domande brucianti in questi giorni.

La vigilia di un nuovo choc petrolifero?

Siamo alla vigilia di un nuovo choc petrolifero in grado di riportare un’ondata di inflazione e forse una recessione in Italia e in Europa?
Fino a che punto le due superpotenze, Stati Uniti e Cina, saranno in grado di costringere i loro rispettivi alleati, Israele e l’Iran, a mantenere entro binari ben precisi il conflitto fra loro? L’Arabia Saudita sapeva che si stava avvicinando questa guerra e ha cercato di preparare il terreno?

La Russia può trarre vantaggio?

La Russia è in grado di trarre vantaggio dalla nuova crisi in Medio Oriente?
Sono domande collegate fra loro alle quali – avverto – non sono in grado di fornire risposte certe. 
Ma espando i temi di un articolo uscito lunedì sul «Corriere» per fornire elementi che, spero, aiutino il lettore a formarsi le proprie. A partire dal significato di quello che oggi è il punto più nevralgico del pianeta, uno stretto braccio di mare fra la penisola araba e la massa continentale dell’Asia. Vediamo.

Due corsie da tre chilometri

Lo Stretto di Hormuz misura trentatré chilometri di ampiezza tra la penisola di Musandam, divisa fra Oman e Emirati Arabi Uniti a Sud, e l’Iran a Nord. Le corsie per le navi in entrata e uscita nelle due direzioni sono larghe tre chilometri ciascuna: i tremila metri più vitali e più fragili dell’economia mondiale, nel Golfo Persico. 

Domenica 15 giugno alle 18, mentre i missili e i droni volavano sull’Iran, mezzo migliaio fra petroliere, portacontainer ed altre navi si trovavano fra Bassora alla confluenza di Tigri ed Eufrate in Iraq – vicino alla foce nel Golfo – e la costa dell’Oman dall’altra parte dello stretto. Da quel braccio di mare passano più di un quinto dell’offerta mondiale di petrolio (da Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Qatar, Iraq, Iran) e oltre un decimo dell’offerta di gas (congelato sulle navi in gran parte da Qatar, Arabia Saudita e Iran).

Sono petroliere il 61% delle navi che attraversano Hormuz: anche solo il sospetto che l’Iran possa provare a intralciarle, per ritorsione dopo gli attacchi di Israele, farebbe esplodere le quotazioni dell’energia in tutto il mondo. Già sotto la minaccia dei dazi americani e della guerra della Russia, rischierebbe allora di risvegliarsi in una morsa fra inflazione e stagnazione. 

I mercati finanziari spesso si sbagliano ma – per ora – non sembrano credere allo scenario peggiore. Le borse hanno perso un po’ di terreno e il petrolio è salito del 7% venerdì; gli investitori sui mercati aperti a Tel Aviv e nel Golfo hanno mostrato autocontrollo, con la borsa israeliana in lieve crescita (0,35%) benché il Paese fosse sotto le bombe e la borsa di Riad solo in lieve flessione. 

Certo, a Tel Aviv i mercati crescono perché vengono molto comprate le aziende della difesa e Riad contiene i danni perché è molto comprato il colosso petrolifero Aramco.

La piazza di Dubai

Ma sulla piazza di Dubai il Brent non è salito neanche dell’1% ed è ancora ai livelli in cui si trovava il 2 aprile scorso, il Liberation Day in cui Donald Trump ha annunciato i suoi dazi «reciproci». Per il momento siamo lontani da quotazioni d’emergenza. Il barile è di quasi il 9% sotto ai livelli dell’inaugurazione del presidente americano e del 5,5% sotto ai livelli di un anno fa; dunque contribuisce ancora a ridurre il tasso d’inflazione annuale. «Il mercato del petrolio ha un eccesso di offerta», mi ha detto Simone Tagliapietra, senior fellow del centro studi Bruegel.

I sauditi sapevano?

Qui però si apre una delle domande elencate sopra. Perché in giro non c’è solo la speranza che gli iraniani non siano così folli e suicidi da bloccare lo Stretto di Hormuz e trascinare gli Stati Uniti nel conflitto per riaprirlo. C’è anche la constatazione che l’Arabia Saudita, poco prima di questa guerra, ha fatto l’opposto di ciò che storicamente tende a fare: ha aumentato la produzione di petrolio in un mercato mondiale già ben rifornito e ha fatto così scendere i prezzi del suo stesso prodotto. In questo si è tirata dietro l’intera Opec, triplicando gli aumenti di produzione previsti in maggio e giugno.

Che cosa accadrebbe se lo stretto chiudesse?

Mohammed Bin Salman sapeva? Ha costruito un ammortizzatore per gli choc di questa guerra? Anche qui la risposta toccherà agli storici, è possibile che l’uomo forte di Riad volesse semplicemente ingraziarsi Trump prima della sua visita a metà maggio in Arabia Saudita. 

Avverte però Tagliapietra: «Il quadro può cambiare rapidamente se si arrivasse alla destabilizzazione totale di Hormuz». Lo spettro di un blocco di Hormuz non è dissipato. In quel caso l’Arabia Saudita potrebbe esportare al massimo la metà dei suoi 9 milioni di barili al giorno tramite un oleodotto verso il Mar Rosso. Ma gli Emirati (4,4 milioni di barili), il Kuwait (2,5 milioni) e l’Iraq (4,3) milioni sarebbero del tutto tagliati fuori. Rivedremmo il petrolio raddoppiare a 150 dollari al barile e oltre.

Impatto sui prezzi?

Purtroppo non è impensabile. In primo luogo gli Houthi dello Yemen, sostenuti da Teheran, hanno dimostrato di poter mantenere semichiuso lo stretto di Bab el-Mandeb dall’Oceano Indiano verso Suez malgrado più di un anno di pressione militare occidentale. La stessa amministrazione Trump ha bombardato gli Houthi per sette settimane fino a inizio maggio, fino a quando Trump stesso ha dichiarato: «Hanno capitolato». Altro esempio di declino americano. Nella prima settimana di giugno sono passate da Bab el-Mandeb appena trenta navi, come accade da più di un anno, invece delle ottanta in media di prima del blocco (gli Houthi chiedono un «dazio», o pizzo, ai mercantili per non aprire su di loro il fuoco dai promontori yemeniti).

Anche Israele può far saltare gli equilibri

Anche Hormuz ha già vissuto dei contraccolpi nella storia recente. Poco più di un anno fa l’Iran sequestrò il mercantile MSC Aries del gruppo di Gianluigi Aponte, in parte perché la moglie dell’imprenditore è israeliana. Prima ancora durante la guerra Iran-Iraq (1980-1988) e durante le due guerre del Golfo (1991 e 2003) lo stretto aveva registrato momenti di forte destabilizzazione. Del resto anche Israele potrebbe far saltare i fragili equilibri del mercato, se prendesse di mira le infrastrutture iraniane dell’energia. Sabato ha colpito una raffineria affacciata sul South Pars, il più grande giacimento di gas al mondo (in comproprietà fra Teheran a Nord e Qatar a Sud del Golfo). Ha distrutto anche dei magazzini di carburante. Erano tutti impianti per uso interno dell’Iran, non per l’export, ma l’energia è fungibile: se l’Iran ne ha persa per il proprio uso, può dover ridurre l’export. E soprattutto il mercato del gas resta più vulnerabile a questa guerra di quello del petrolio: oggi il metano in offerta è più scarso del greggio e soprattutto il Qatar è fondamentale per l’accumulo di riserve in Europa in vista prossimo inverno. Se Hormuz dovesse avere problemi, il commercio di gas liquefatto qatarino potrebbe esserne totalmente strangolato: infatti venerdì il gas europeo è rincarato ben oltre le medie mondiali.

Le due superpotenze

Chiaro, contro gli scenari peggiori su Hormuz sono schierati i due grandi spalleggiatori di Israele e Iran. 

Gli Stati Uniti non vogliono che Israele colpisca l’industria degli idrocarburi di Teheran e lo hanno reso molto chiaro. 
E la Cina, comprando (sottocosto) il 90% dell’export di greggio iraniano sotto sanzioni, sta chiedendo alla teocrazia sciita di lasciar fluire le petroliere del Golfo che alimentano la propria industria

Così anche America e Cina saranno sottoposte a un severo testo nei prossimi giorni: sono in grado di governare i loro ben più piccoli alleati o ne stanno perdendo il controllo? Nel mondo senza leader né coalizioni formali di questi anni, non è certo che Washington e Pechino riescano a imporre fino in fondo la loro volontà a Gerusalemme e Teheran.

Può allentarsi la tensione su Putin

Ciò apre la domanda più scomoda: è possibile che Vladimir Putin si avvantaggi della deflagrazione in Medio Oriente? Trump è arrivato a indicare il dittatore russo come possibile mediatore, altro sintomo del declino americano. Ma certo nel breve Putin potrebbe guardare agli eventi con e non solo perché l’attenzione internazionale sul Medio Oriente allenterà la pressione su di lui in vista di una tregua; né solo perché effettivamente il Cremlino ha qualche influenza su entrambe le parti in guerra: il 15% degli israeliani parla russo e Israele ha votato di recente alle Nazioni Unite con la Russia stessa, la Corea del Nord, l’Ungheria, la Cina, l’America di Trump e l’Iran stesso contro una condanna delle azioni di Mosca; quanto all’Iran, è la Russia ad avergli venduto l’uranio per la bomba atomica, mentre collaborazione sui droni militari è nota (ma ora i russi hanno appreso la tecnologia e hanno sviluppato una propria industria)

La fortuna di Putin

Ma il punto più importante per la Russia è un altro: grazie ai rincari di questi giorni può vendere il proprio petrolio sopra il 60 dollari al barile, la soglia alla quale l’aggressione all’Ucraina diventa finanziariamente sostenibile; ogni aumento del barile da 10 dollari porta 25 miliardi di dollari in più nel bilancio del Cremlino, secondo l’economica Alexander Kolyandr del Center for European Policy Analysis di Washington. E le forniture di energia dalla Russia diventano più importanti nel mercato globale, portando Trump a essere ancora più contrario a qualunque nuova sanzione sul greggio di Mosca. Così la guerra in Medio Oriente rischia di favorire la guerra di Putin, almeno nell’immediato.

In fondo anche questo è un sintomo sempre della stessa tendenza: il secolo americano sta lasciando posto al secolo del caos


A questo punto, avendo rimesso in ordine lo scenario internazionale, evidenziando gli elementi che sono di maggiore rilievo per chi, come Recce’d, si occupa di investimento e di gestione di portafogli modello, passiamo ad un esame più specifico, e quindi concentrato sulle economie e sui mercati finanziari.

Ci aiuterà a fare questo niente di meno che il Governatore della Banca d’Italia.

Il legame tra i fatti che Visco commenta qui sotto, ed i fatti citati invece sopra nel primo contributo di oggi dovrebbe risultare facile da individuare per tutti i nostri lettori.

Governatore Visco siamo al ritorno dei dazi. Ma cosa ha prodotto l’abbattimento delle barriere commerciali e la progressiva liberalizzazione degli scambi in tre decenni?

“Non possiamo parlare di una singola causa, ma vi è un complesso di fattori non indipendenti tra loro che spiegano lo straordinario incremento degli scambi internazionali di beni e servizi, quadruplicatisi in circa un trentennio. Temporalmente non c’è dubbio che la fine della guerra fredda e la parallela decisione cinese di aprirsi al mercato abbiano segnato una cruciale discontinuità politica rispetto alla precedente divisione in due blocchi tra loro contrapposti, con un terzo mondo sostanzialmente tagliato fuori dai commerci. L’eccezionale sviluppo delle nuove tecnologie dell’informazione e delle comunicazioni e il drastico calo del costo dei trasporti hanno fatto emergere la possibilità di una nuova forma di divisione del lavoro e della produzione. Si sono quindi affermate ‘catene globali del valore’, cosicché un prodotto ‘finale’ è sempre più diventato il risultato di una combinazione di parti e processi distribuiti in luoghi tra loro anche molto distanti.

“Questa distribuzione è stata determinata soprattutto dalla disponibilità e convenienza relativa dei fattori di produzione: non solo lavoro e capitale, ma anche materie prime, idee e conoscenze. Con la costituzione nel 1995 dell’Organizzazione mondiale del commercio e l’applicazione tra i Paesi membri della clausola della ‘nazione più favorita’, la riduzione delle barriere normative e tariffarie è quindi diventata un obiettivo sempre più condiviso, con ampi e diffusi benefici negli scambi non solo di beni ma anche di servizi, in particolare finanziari e tecnologici. Era il 2001 quando si festeggiava l’ingresso della Cina nell’Omc”.

Secondo lei è mai avvenuta l’integrazione reale e finanziaria della Cina in un “ordine” mondiale definito secondo i valori delle economie democratiche, liberali e di mercato?

“La Cina entrò a far parte dell’Omc dopo un lungo negoziato nel quale ebbero un ruolo molto importante gli Stati Uniti sotto la presidenza di Clinton. Indubbiamente il mondo ‘occidentale’ di allora pensava che il processo di trasformazione della Cina in una economia di mercato l’avrebbe aperta nel tempo anche ai valori delle democrazie liberali. Inizialmente, però, le fu concesso di partecipare come un’economia emergente, ‘non di mercato’, con la possibilità, in particolare, di concedere alle proprie imprese ingenti aiuti e sussidi statali; questo in misura certamente maggiore e meno trasparente che nei Paesi cosiddetti avanzati. È indubbio che la Cina ha fortemente beneficiato di questo status; con una crescita eccezionale, di natura essenzialmente mercantile, fondata cioè sulle esportazioni ancor più che sulla domanda interna per consumi: il suo prodotto pro capite è oggi 14 volte superiore a quello del 1990. Nonostante sia a tutti gli effetti diventata ormai una grande potenza industriale, la Cina non ha però accettato di mettere in discussione questa favorevole condizione nell’ambito dell’Omc, in contrasto con le aspettative degli altri principali paesi.

"Nel tempo questo ha concorso ad accelerare la riduzione di occupazione manifatturiera in questi paesi, in particolare negli Stati Uniti, accentuando un trend peraltro già in atto per il progresso tecnologico. Il partito comunista cinese ha inoltre continuato a occupare un ruolo cruciale nella direzione delle imprese e nella pianificazione e nello sviluppo delle attività di innovazione e ricerca. È andata quindi crescendo, negli Stati Uniti ma anche in Europa, la percezione che accanto agli aiuti statali si sia andata affermando una concorrenza sleale, almeno inizialmente basata anche sullo spionaggio industriale e sul mancato rispetto della proprietà intellettuale”.

Siamo vicini alla “fine della globalizzazione”, almeno per come si è sviluppata dalla fine della guerra fredda a oggi?

“Va anzitutto sottolineato che nonostante i benefici della globalizzazione, e dell’eccezionale progresso tecnologico, degli ultimi decenni, sia straordinariamente mancata l’azione politica rivolta a una loro equa distribuzione (per non parlare degli effetti negativi sul clima e l’ambiente). Questo spiega anche l’atteggiamento che ampie fasce della popolazione, soprattutto ma non solo negli Stati Uniti, appaiono avere nei confronti dell’apertura dei mercati e del libero scambio. In ogni caso, già prima del cambiamento politico negli Usa, la fragilità nell’approvvigionamento di materie prime cruciali (semiconduttori, metalli, terre rare) e semilavorati emersa con la pandemia e i gravissimi conflitti cui stiamo purtroppo ancora assistendo avevano spinto nella direzione di un rientro di alcune fasi produttive (near shoring) e, sulla spinta politica americana, al loro aumento all’interno di paesi ‘amici’ o alleati (friend shoring).

"Con la nuova amministrazione Trump, la frammentazione economica è destinata ad aumentare, probabilmente non solo tra paesi avanzati e emergenti. Tuttavia, riguardo alla ‘fine della globalizzazione’ risponderei con un qualificato ‘no’. Data l’interdipendenza economica ancora esistente una drastica ridistribuzione dei luoghi di produzione appare infatti ancora difficile da attuare, e in termini economici molto costosa. Fino allo scorso anno, comunque, nonostante barriere, tariffe e sanzioni, il commercio internazionale ha continuato a vedere una Cina particolarmente attiva, anche con triangolazioni nei confronti degli Stati Uniti grazie al ruolo di intermediazione svolto da numerosi altri paesi emergenti”.

Che impatto hanno avuto gli squilibri associati all’apertura dei mercati mondiali di beni, servizi e capitali sulla bilancia dei pagamenti dei diversi Paesi?

“Nel mondo ormai c’è un solo grande debitore, gli Stati Uniti: la loro posizione patrimoniale netta – la differenza tra le attività finanziarie detenute all’estero dai residenti negli Usa e le passività finanziarie verso non residenti – è negativa per oltre 26.000 miliardi di dollari, pari al 90% del Pil.

Molti altri Paesi hanno invece attività finanziarie nette positive, anche se individualmente molto più piccole in termini assoluti; tra i Paesi creditori, le più importanti, tra i 3.000 e i 4.000 miliardi, sono quelle di Giappone, Germania e Cina. Questo è soprattutto il risultato di importazioni americane superiori ogni anno alle loro esportazioni. La somma nel tempo dei disavanzi ha quindi prodotto passività nette il cui valore è straordinariamente aumentato negli ultimi 15 anni. Infatti, pur cresciuti in termini assoluti (in particolare nei confronti della Cina che dall’inizio del secolo ha accumulato un surplus di esportazioni nette di beni pari a circa 7.000 miliardi di dollari) non sono i disavanzi commerciali ad aver determinato lo straordinario aumento relativo delle passività nette degli Stati Uniti verso l’estero”.

A cosa è dovuto, almeno dal 2011, lo straordinario aumento del valore delle passività finanziarie statunitensi?

“Questo aumento è in parte dovuto all’apprezzamento del dollaro nei confronti del complesso delle altre valute, ma soprattutto a un incremento eccezionale, superiore al 370%, dei valori azionari delle società americane (a fronte di meno del 25% dell’aumento medio in dollari delle quotazioni azionarie delle società nel resto del mondo). Se si escludono queste variazioni di valore la posizione passiva netta americana, oggi pari al 90% del Pil, è ferma al livello del 50% circa registrato nel 2010”.

È possibile un aggiustamento? Come? Con i dazi? E possono i dazi aiutare a riportare la manifattura negli Usa?

“Più che possibile un aggiustamento è necessario. Il rischio è che sia disordinato e molto costoso. I dazi sono imposte sui flussi commerciali; probabilmente determineranno un aumento dei prezzi dei prodotti importati dagli Stati Uniti. Se ne deriverà una riduzione delle importazioni di manufatti, semilavorati e materie prime non tutte potranno essere sostituite, nel tempo, dalla produzione interna, una produzione che sarà comunque più costosa e, a parità di occupazione, andrà probabilmente a scapito della stessa produzione americana per l’export. È comunque molto dubbio che si possa ottenere una riduzione dello squilibrio commerciale americano in assenza di un calo dei consumi, e questo è probabilmente il modo meno efficace e più costoso per ottenerlo.

"L’alternativa sarebbe quella di ridurre il disavanzo pubblico americano, ma le maggiori entrate dovute ai dazi (pagate in ultima istanza dai consumatori americani e forse in parte dalle imprese estere esportatrici se riusciranno a contenere i loro prezzi) sembrano essere destinate nelle intenzioni del governo a ridurre le imposte, non i trasferimenti. Continuerebbe quindi l’aumento del debito pubblico, già oggi superiore ai 36.000 miliardi di dollari (12 volte quello italiano), oltre il 120 per cento del Pil, a meno che non si abbia una drastica riduzione della spesa pubblica, ad esempio tagliando il numero dei dipendenti federali, le spese per l’istruzione e la ricerca, o quelle per l’assistenza, come da più parti si teme, anche alla luce delle più recenti azioni e dichiarazioni della nuova amministrazione”.

E il boom dei titoli azionari? Si può prevedere un loro ridimensionamento?

“Come ho detto, oltre all’apprezzamento del dollaro, lo straordinario aumento del valore delle passività finanziarie statunitensi è dovuto a una crescita senza pari dei prezzi delle azioni. Questa è stata trainata dalla performance dell’industria tecnologica statunitense, in particolare dai titoli delle maggiori società tecnologiche, le ‘Magnifiche 7’, sia negli Stati Uniti, dove rappresentano circa un terzo della capitalizzazione complessiva del mercato statunitense, sia a livello mondiale. Il loro successo è certamente il risultato dei massicci investimenti in innovazione e capitale effettuati dopo la crisi finanziaria mondiale, e riflette quella che è stata la forza dell’economia statunitense, più che la debolezza connessa con lo straordinario passivo finanziario netto nei confronti dell’estero.

"Tuttavia, l’altissimo rendimento di questi titoli riflette probabilmente anche l’aumento del loro potere di mercato e il parallelo aumento dei profitti di monopolio, risultato di una preoccupante concentrazione di conoscenze e potere economico (cui fanno riscontro analoghi sviluppi in sistemi fortemente autocratici). Questo da un lato comporta perdite di benessere sociale, dall’altro potrebbe avere conseguenze non positive nel più lungo periodo, per l’affievolirsi, in particolare, degli investimenti innovativi in connessione con l’aumento delle rendite monopolistiche. Vi è evidentemente il rischio che tutto ciò porti a una correzione del mercato azionario non graduale, e forse eccessiva”.

Si è parlato anche di una svalutazione del dollaro. Sarebbe possibile e come?

“Nella letteratura economica a un aumento dei dazi è solitamente associato un apprezzamento del cambio, come riflesso delle presumibili conseguenti maggiori aspettative d’inflazione. Se però dominassero le attese recessive, connesse anche con lo straordinario aumento dell’incertezza associato alle iniziative che il governo americano sembra oggi mettere in atto oltre che sul piano tariffario anche sul fronte interno, potrebbero derivarne conseguenze negative per il dollaro. Una correzione in questa direzione è probabilmente dovuta; la questione, anche in questo caso, è come ottenerla senza tensioni particolarmente elevate, quando non possiamo che constatare il significativo indebolimento della cooperazione internazionale, non solo sul piano commerciale ma anche su quello finanziario”.

Come si può favorire il dialogo tra i diversi sistemi, nel rispetto delle sovranità oggi esistenti, con l’unica condizione, imprescindibile, del rispetto fondamentale dei principi e dei valori fondanti della convivenza pacifica tra le nazioni?

“Il problema sta proprio nel fatto che negli ultimi anni si sono sempre più affievolite la capacità e la forza di impegnarsi in nuovi sforzi di cooperazione, necessari per elaborare risposte comuni a sfide globali, siano esse ambientali, demografiche, tecnologiche o sanitarie, oltre che per ridurre con decisione i rischi derivanti dagli squilibri commerciali e finanziari di cui abbiamo parlato. Probabilmente, anziché mirare a un ritorno a un grande disegno cooperativo, l’unica soluzione sarebbe quella di affrontare le singole questioni una alla volta, partendo dalla consapevolezza dell’esistenza di cruciali interessi comuni e globali.

"Mi pare, tuttavia, che vadano anzitutto chiariti gli obiettivi di fondo perseguiti dal presidente Trump e dalla sua amministrazione nello scacchiere internazionale, essendo sempre più evidente che più che sul piano commerciale il confronto con il resto del mondo, in primis con la Cina, sia di natura tecnologica e geopolitica, quando non militare. Ma le sfide globali, incluso il ritorno a un ordinato sistema monetario internazionale, non possono essere accantonate semplicemente rinunciando alla cooperazione e alla ricerca di soluzioni sensate e sufficientemente ampie.

“Quanto agli aspetti distributivi conseguenti sia all’apertura internazionale sia allo sviluppo tecnologico, finora in massima parte trascurati, vanno affrontati senza cedere a letture e condotte populiste e nazionaliste, non ben meditate e, non solo a lungo andare, dannose. Purtroppo, restano sullo sfondo le diverse posizioni (o “non posizioni”) sui diritti umani, freno all’apertura di un dialogo sufficientemente equilibrato e duraturo anche su temi di comune interesse. È realisticamente difficile fare passi avanti in assenza di un chiarimento definitivo, anche a questo riguardo, tra Stati Uniti, Cina ed Europa (comunque la si definisca)”.

* Intervista su temi da lui trattati nella Lezione Mario Arcelli tenuta a Piacenza lo scorso 11 aprile


Siamo arrivati al terzo ed ultimo step (per oggi) del nostro percorso: il terzo step vi aiuterà a calare le considerazioni di Visco che avete appena letto nel contesto di questi giorni, ed in particolare nel contesto dei mercati finanziari internazionali.

L'ultimo attacco di Israele all'Iran costituisce un grave shock per l'economia globale in un momento già fragile. Aumenta i rischi sia per la crescita che per l'inflazione, proprio come la flessibilità degli strumenti fiscali e monetari che possono essere impiegati in risposta è diventata limitata. La gravità degli effetti negativi dipenderà dall'entità e dalla durata dell'attacco unilaterale di Israele e dalle rappresaglie che innescherà. Ma dato il già elevato livello di incertezza, i mercati stanno reagendo negativamente. I prezzi del petrolio sono aumentati di oltre il 5%, attestandosi a circa 70 dollari al barile. Si tratta di un dato ancora inferiore ai picchi di gennaio di circa 82 dollari al barile e gli investitori saranno ansiosi di vedere come reagirà l'Opec+.

Ma i prezzi sono aumentati nelle ultime settimane, intensificando i venti di stagflazione che soffiano sull'economia globale. I mercati azionari sono scivolati, scontando un'incertezza ancora maggiore riguardo all'attività economica, con un rischio maggiore che consumatori e produttori diventino ancora più esitanti.

All'inizio di questo mese, la Banca Mondiale ha previsto un rallentamento della crescita globale al 2,3% nel 2025, quasi mezzo punto percentuale in meno rispetto al tasso previsto all'inizio dell'anno. Pur non prevedendo una recessione globale, ha avvertito che, se le previsioni per i prossimi due anni si materializzassero, la crescita globale media nei primi sette anni del 2020 sarebbe la più lenta di qualsiasi decennio dagli anni '60. E questo ipotizzando un prezzo medio del petrolio di 66 dollari al barile per il 2025 e di 61 dollari il prossimo anno, in un contesto di più ampio calo dei prezzi delle materie prime.

Le banche centrali dovranno ora intensificare la loro vigilanza sulle pressioni inflazionistiche che non sono ancora state contenute con sicurezza. Ciò rende meno probabile che vengano innescati tagli anticipati e più ampi dei tassi di interesse in risposta a qualsiasi rallentamento.

Nel frattempo, qualsiasi risposta fiscale arriverebbe in un momento di tassi di interesse ancora elevati e di grande sensibilità degli investitori a deficit e debito. I bilanci rischiano di essere ulteriormente sottoposti a pressioni derivanti da una minore riscossione delle imposte e da maggiori richieste di spesa.

Tali potenziali effetti economici e finanziari negativi sono particolarmente rilevanti per il Regno Unito. La Spending Review di questa settimana ha evidenziato non solo l'importanza della crescita economica, ma anche il rischio che le famiglie, già sotto pressione, si trovino ad affrontare una significativa possibilità di una tassazione più pesante nel bilancio di ottobre. Ciò compensa il beneficio di ulteriori tagli dei tassi della Banca d'Inghilterra, ora ancora meno certi. L'economia globale si trova anche ad affrontare il rischio di effetti indiretti negativi.

Col tempo, l'incertezza derivante da questa nuova crisi in Medio Oriente potrebbe essere vista come un'aggiunta all'attuale erosione dell'ordine economico globale guidato dagli Stati Uniti, alimentando ulteriormente le forze della frammentazione economica. Ciò, a sua volta, incoraggerà i paesi a fidarsi meno dei meccanismi collettivi di stabilità, spingendoli invece a perseguire misure per garantire una maggiore autosufficienza all'interno dei propri confini. In definitiva, l'efficienza dell'economia globale sarà compromessa.

Non passerà inosservato nemmeno il fatto che i due più importanti indici finanziari globali, i titoli del Tesoro USA e il dollaro, abbiano avuto una risposta iniziale relativamente contenuta all'attacco israeliano. Entrambi si sono ripresi leggermente, ma nessuno dei due ha registrato il tipo di "guadagni rifugio" che l'esperienza storica ci porterebbe ad aspettarci. Questo è importante anche a lungo termine.

A causa della lunga influenza degli Stati Uniti sull'economia globale e del loro lungo periodo di eccezionalismo economico, gran parte del resto del mondo è "sovrappeso" sul dollaro e sugli asset americani in generale. Più il ruolo degli Stati Uniti al centro dell'ordine globale si riduce, maggiore è l'incentivo per i paesi a ridurre questo sovrappeso. In qualunque modo lo si guardi in termini di effetti economici e finanziari, questo nuovo sviluppo in Medio Oriente è una cattiva notizia in un momento sbagliato. Ricorda alle economie e ai mercati che devono affrontare una serie di fattori politici e geopolitici sempre più instabili. E incoraggia una migrazione graduale dall'attuale architettura economica a un'altra caratterizzata da una maggiore frammentazione e da un rischio più elevato di instabilità finanziaria.

E’ importante ripetere, a questo punto, che NON è detto che noi di Recce’d condividiamo tutto ciò che viene scritto nei contributi esterni che noi vi mettiamo a disposizione.

Se siete interessati a conoscere le nostre attuali posizioni, nei portafogli modello di Recce’d, e le nostre future operazioni, previste per le prossime settimane, non avete che da contattarci attraverso la pagina CONTATTI

In conclusione del Post, arriviamo dunque ad Ernest Hemingway (citato dal nostro titolo di oggi).

Hemingway, grazie alla ben nota forza delle sue frasi, e della sua scelta delle parole, oggi può risultare ed utile per ognuno dei nostri lettori e per tutti gli investitori del Pianeta. Proprio in questo contesto, che vi è stato descritto, ed analizzato, lungo il percorso in tre step che Recce’d vi ha appena proposto.

Il romanzo di Hemingway, che citiamo qui, in Italia viene pubblicato con il titolo “Fiesta”.

Lasciamo la citazione nella lingua originale.

There’s a passage in Ernest Hemingway’s novel The Sun Also Rises in which a character named Mike is asked how he went bankrupt. “Two ways,” he answers. “Gradually, then suddenly.”

Valter Buffo
Detox. Semplicemente la normalizzazione
 

La guerra è un evento tragico, che in ognuno di noi suscita un’ampia gamma di sentimenti e pensieri, comunque orientati alla preoccupazione ed al dolore. Recce’d la settimana scorsa, nel Post che precedete questo, aveva messo in grande evidenza la geopolitica, e le ricadute della geopolitica sulla asset allocation, sulla strategia di investimento e sulla futura gestione dei vostri portafogli.

Vi invitiamo a rileggere: quelle considerazioni sulla geopolitica sono tanto più utili oggi.

In questa sede, il nostro dovere professionale è di concentrare l’attenzione sugli aspetti che riguardano le scelte di investimento, la gestione del risparmio, la strategia da mettere in pratica in seguito al nuovo vento.

Nella giornata di venerdì 13 giugno, le reazioni che tutti abbiamo visto sui mercati finanziari sono state molto moderate: al limite dell’insignificante. Una normale giornata di mercato.

Ed ovviamente anche questo è un segnale, un segnale forte.

Tra le tante, tantissime osservazioni che si potrebbero fare, in merito alla seduta del 13 giugno 2025, noi ne abbiamo scelta una: vi facciamo vedere, nel grafico che segue, il rendimento, e quindi anche il prezzo, del Titolo di Stato americano.

Ricordate l’epoca dei Titoli di Stato come beni rifugio?

I fatti del 13 giugno 2025 ci dicono con chiarezza che quell’epoca non c’è più. Anche di fronte al rischio, concreto, di un conflitto su scala mondiale, non c’è la corsa a comperare i Titoli di Stato: non il Treasury americano, non il Bund tedesco, non il BTp italiano, e neppure quello giapponese.

Nessuno, di fronte alla nuova guerra, cerca rifugio nei Titoli di Stato.

Recce’d, con la sue serie Detox che prosegue oggi, ha voluto segnale proprio questo fatto: non solo, ma fin dallo scorso mese di marzo ha presentato al proprio lettore questo tema come “il solo tema che conta”.

E conta così tanto, che neppure il rischio di una guerra mondiale lo indebolisce: rimane il tema dominante.

La crisi del debito pesa più di una guerra.

Restiamo quindi su questo tema: Detox. Il nostro suggerimento operativo, che conoscete, è di non distogliere la vostra attenzione dai fatti che determinano.

Che cosa determina i vostri risultati nel 2025? Che cosa determina i vostri rischi di perdita sul portafoglio dei vostri investimenti? E’ proprio di questo, che noi ci occupiamo nella serie Detox.

Come da sempre facciamo, noi di Recce’d utilizziamo il nostro Blog per aiutare, in modo tempestivo e concreto, tutti i nostri lettori a migliorare il risultato dei loro investimenti, ed allo stesso tempo a migliorare la comprensione di ciò che sta accadendo ai loro risparmi.

Nel Blog, come sapete, alterniamo a contributi originali anche contributi esterni, allo scopo di offrire al nostro lettore precisi riferimenti nella realtà esterna a Recce’d, oltre che originali analisi e riflessioni prodotte dal nostro team di lavoro.

In questo modo, il nostro lettore è libero: libero di fare confronti, libero di fare le proprie valutazioni, libero di fare le proprie scelte, libero sempre.

Libero ma consapevole: consapevole di ciò che sta per succedere, e consapevole delle implicazioni delle scelte già fatte: sia in termini di futuri rendimenti, sia in termini di futuri rischi di perdita.

Ma Recce’d è in grado di fare, per il proprio lettore, anche di più.

E’ in grado di fornire ai propri lettori supporti decisionali per:

  1. asset allocation

  2. strategia di investimento

  3. gestione futura del portafoglio

La serie Detox, che oggi prosegue, è il classico esempio: iniziata a marzo 2025, quando nessuno al Mondo toccava questo tema, noi vi presentammo il tema del debito come unico tema di mercato per tutto il 2025.

Oggi, a distanza di quattro mesi, il tema è finito sulla prima pagina di tutti i quotidiani, ed in Italia anche dei principali quotidiani come il Corriere della Sera e La Repubblica. Eccovi subito un esempio, dello scorso 11 giugno 2025 (due giorni prima della guerra).

Dopo che lo avrete letto, ve ne illustreremo l’utilità.


Non c’è mai stato in giro così tanto debito come oggi. E la tendenza è che non diminuirà. Tra Stati e imprese, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (Ocse) ha contato qualcosa come 100mila miliardi di dollari in bond emessi.

Nel suo Global Debt Report, l’Ocse ha parlato senza mezzi termini di “prospettive difficili”, perché a differenza di due anni fa, sul mercato dei bond sono venuti meno 1) gli acquisti di titoli da parte delle Banche centrali e, in uno scenario di aumento generalizzato del debito, 2) i rendimenti sono saliti nonostante il calo dei tassi.

L’avvertimento dell’Ocse. “Questa combinazione di costi più elevati e maggiori rischi di indebitamento – scrive l’Ocse - limita la capacità di contrarre prestiti in futuro, in un momento in cui le esigenze di investimento sono più che mai elevate”.

Tutti pazzi per i bond. Tra crisi geopolitiche e transizioni in atto, mai come prima stiamo assistendo a una corsa al debito da parte di tutti i principali Paesi industrializzati.

Il caso degli Usa. Gli Stati Uniti che in dieci anni hanno visto il proprio debito esplodere da 10mila a 36mila miliardi di dollari, hanno appena varato una legge di bilancio, il “Big Beautiful Bill”, che aggiungerà almeno 5mila miliardi di debito in più per mantenere l’attuale tassazione alle imprese, nonostante il rapporto debito/Pil superi già il 120%.

Il caso Germania. Il governo tedesco, storicamente restio a contrarre prestiti e con livelli di debito molto bassi, ha in programma la riforma di un articolo della Costituzione che impone un disavanzo massimo allo 0,35% del Pil al bilancio federale perché ha bisogno di risorse aggiuntive per costruire un esercito all’avanguardia e per dare una spinta alla propria economia con un nuovo Fondo infrastrutturale.

Gli altri. Francia, Spagna e Italia, nonostante i ridotti margini di bilancio, potrebbero presto decidere di aumentare le spese di difesa per rispondere alla chiamata della Nato che vorrebbe alzarle fino al 5% del Pil.

Il Giappone, che ha un debito pari al 250% del suo Prodotto interno lordo, si è impegnato ad alleviare il peso dei dazi e a sostenere le proprie imprese. Sono necessità che si tramutano in nuove emissioni di debito.

Il primo campanello di allarme: i Gilt. Il primo alert di un mercato difficile, si è avuto sulle scadenze più lunghe quando ad aprile dopo l’annuncio dei dazi da parte di Trump, i rendimenti dei titoli a 10 e 30 anni inglesi (Gilt) sono saliti ai massimi.

L’intervento. La Banca d’Inghilterra ha fiutato il pericolo e, senza pensarci troppo, ha subito fermato le emissioni di titoli a lungo termine sostituendole con scadenze a breve. Le preoccupazioni degli investitori si sono concentrate sul debito crescente e sulla mancanza di margine di manovra fiscale del governo inglese, azzerato dall'aumento dei costi degli interessi. E il mercato ha venduto i titoli a lunga scadenza.

Il secondo campanello d’allarme: i bond nipponici. In Giappone, dove la politica monetaria ultra-accomodante ha mantenuto i rendimenti a lungo termine al di sotto dell'1% per anni, una brutale ondata di vendite li ha portati a livelli record. A maggio, sono bastate un paio di aste di titoli a 20 e 40 anni con esiti deludenti, per far schizzare i tassi.

Le obbligazioni a 20 anni che a inizio anno erano sotto il 2%, hanno registrato rendimenti sopra il 2,5% e quelle a 40 sono passate dal 2,5 al 3%.

La settimana scorsa un’asta di titoli a 30 anni ha avuto la peggiore richiesta dal 2023 a oggi, ma i rendimenti sono scesi perché il governo ha lasciato intendere che, come la Bank of England, potrebbe tagliare le prossimi emissioni di titoli a lungo termine.

Il terzo campanello di allarme: i Treasury. Anche negli Stati Uniti le aste di titoli con durate superiori ai dieci anni non stanno riscuotendo un grande successo. Il mese scorso l’ultimo collocamento di titoli ventennali ha registrato un rendimento elevato del 5,047%, circa un punto base al di sopra del livello a cui era stato scambiato prima dell’asta.

Per giovedì 12 giugno è in programma un’emissione di Treasury trentennali, i cui rendimenti sono appena sotto il 5% e in linea con il 2007, un’asta che potrebbe confermare il trend in corso.

Perché non si comprano le lunghe scadenze. Oltre all’ansia per l’indebitamento eccessivo dei Paesi che emettono titoli e al venire meno degli acquisti delle banche centrali, su queste scadenze stanno incidendo anche le nuove strategie dei fondi pensioni e assicurativi.

Nel Regno Unito, i fondi pensione aziendali non stanno più offrendo linee garantite, per le quali utilizzavano titoli a lunga scadenza, ma dirottano i nuovi iscritti verso altri tipi di investimento, utilizzando hedge fund, più propensi a costruire prodotti che utilizzano obbligazioni a breve termine.

Un effetto simile si sta verificando in Giappone, dove la generazione dei baby boomers del dopoguerra sta invecchiando e non ha più bisogno dello stesso livello di debito a lungo termine per i propri piani di accumulo.

La sfiducia di BlackRock... Tra i grandi player critici spicca la posizione del gigante degli investimenti BlackRock che è tra gli investitori che più diffidano dei titoli di Stato a lungo termine emessi dai governi dei mercati sviluppati ed è particolarmente cauto nei confronti degli Stati Uniti, gravati da un deficit enorme e in crescita.

… e di Dimon. Jamie Dimon, amministratore delegato di JPMorgan e guru della finanza che ha passato indenne tutte le utlime crisi, ha dichiarato che il debito pubblico statunitense è un “problema serio” che potrebbe creare un “periodo difficile” per il mercato obbligazionario, causando un ampliamento degli spread.

Oggi il differenziale di rendimento tra i titoli del Tesoro USA a 2 anni e quelli a 30 anni ha raggiunto circa un punto percentuale, il livello più alto degli ultimi tre anni, con un aumento simile anche altrove.

Al momento non esiste una corsa alla vendita di titoli del debito e i temuti bond vigilantes non sono entrati in azione.

Chi sono i bond vigilantes. Il termine, coniato negli anni '80, definisce gli investitori obbligazionari che cercano di imporre una disciplina fiscale ai governi ritenuti spendaccioni, facendo aumentare i costi di finanziamento.

Contro Clinton. L’ultima volta che i bond vigilantes sono intervenuti nel mercato Usa è stato nel 1993, durante il primo mandato di Bill Clinton. Le basse tasse e le elevate spese per la difesa nel decennio precedente avevano contribuito a raddoppiare il debito degli Stati Uniti in percentuale del prodotto interno lordo.

L’aumento dei rendimenti dei Treasury costrinse Clinton a prendere una decisione impopolare come l’aumento delle tasse e il taglio della spesa per salvare il bilancio.

Trump sotto osservazione. Ora con l’avvento di Trump e delle sue politiche fiscali i bond vigilantes sono di nuovo in allerta, ma si tratta di un’allerta sul debito mondiale, come segnalato dall’Ocse.

La corazza degli Stati Uniti. Gli esperti ritengono che gli Stati Uniti godano di una certa copertura, grazie allo status del dollaro come valuta di riserva globale e alla ormai consolidata capacità della Fed di intervenire sui mercati in momenti di crisi, il che significa che ci saranno sempre acquirenti del debito statunitense.

La debolezza degli altri. Altre nazioni, invece, potrebbero essere esposte a rischi più immediati, anche per i timori che le politiche commerciali di Trump possano frenare la loro crescita.

Il Liz Truss moment. Alcune delle maggiori economie europee, come la Gran Bretagna, hanno già subito pressioni sui mercati obbligazionari. L'allarme per i tagli fiscali non finanziati nel bilancio del Regno Unito, volti a stimolare la crescita economica, ha sconvolto i mercati del debito britannico nell'autunno del 2022.

I Gilt incassarono la più grande flessione giornaliera degli ultimi decenni e la sterlina scese ai minimi storici, costringendo la Banca d'Inghilterra a intervenire.

La premier britannica Liz Truss non solo rinunciò alla sua pro...osta di tagli, ma, eletta il 6 settembre, si dovette dimettere il 25 ottobre, segnando il record negativo di permanenza a Downing Street.

I candidati. Secondo gli analisti, è probabile che l’aumento delle vendite di debito a lungo termine continui e si possano di nuovo creare le condizioni per un incidente. Secondo Peder Beck-Friis, economista presso il gigante obbligazionario Pimco, “in una manciata di Paesi, il debito è sostenibile ma vulnerabile a nuovi shock” e ne cita due: il Regno Unito e l’Italia.

Il precedente. Il nostro Paese si trovò in questa situazione nel 2011, quando il governo Berlusconi, di fronte all’impennarsi dei rendimenti dei titoli di Stato (il Btp a dieci anni arrivò a rendere il 7%) fu costretto a dimettersi per lasciar posto all’austerity di Mario Monti.

Nel 2011 toccò ai Piigs… Allora l’attacco dei bond vigilantes fu mosso contro i Piigs, le economie europee più deboli, ovvero Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna e solo l’intervento della Bce e del Fondo monetario riuscì a sedare i mercati.

… oggi ai Big mondiali. Oggi invece, sono più a rischio le grandi economie, compresa la Francia, i cui rendimenti obbligazionari sono saliti ai massimi e a dicembre scorso è stata declassata da Moody’s dopo non esser riuscita ad approvare la legge di bilancio

Come detto sopra, quello che avete appena letto è un articolo della stampa nazionale datato 11 giugno 2025.

Il nostro contributo, concreto, puntuale e qualitativo, alle decisioni del nostro lettore, parte proprio da qui. Da questo articolo del quotidiano La Repubblica.

Noi ora evidenziamo i punti mancanti. Ed i punti da enfatizzare.

Ma soprattutto, noi di Recce’d vi spieghiamo come utilizzare queste informazioni per valutare il portafoglio titoli oggi.

E come muoversi nelle prossime settimane per cogliere le occasioni che proprio questo articolo mette in evidenza per i lettori.

Ecco dove arriviamo noi di Recce’d. Pronti e disponibili per rispondere a queste domande.

E ad altre domande.

A questo scopo, vi proponiamo procedere leggendo un secondo contributo, che arriva dal Financial Times. Questo secondo articolo è una semplice ricapitolazione alla metà di giugno. Semplicemente rimette in ordine le cose. Rispetto al precedente, questo articolo è utile perché

  1. offre una ricostruzione più completa; ed anche

  2. vi illumina alcuni dei rapporti causa - effetto

  3. ed in questo modo, aiuta voi lettori a comprendere, a capire, ad essere consapevoli nelle vostre scelte di investimento

Vi invitiamo quindi a leggere con molta attenzione, e poi fare il confronto.

Le aste di titoli di Stato sono solitamente così di routine da suscitare scarsa attenzione. Ma la vendita di titoli di Stato ventennali da parte del Giappone il mese scorso è stata un'eccezione. Mentre le agenzie di stampa finanziarie diffondevano i risultati disastrosi in tutto il mondo, i prezzi dei titoli di Stato giapponesi a più lunga scadenza sono crollati drasticamente, facendo salire i rendimenti e i costi di finanziamento. Anche un'asta di titoli di Stato statunitensi a 20 anni il giorno successivo ha suscitato una tiepida risposta.

La grande attenzione ai dettagli più minuti delle aste di titoli di Stato e i rendimenti più elevati sui titoli di Stato a più lunga scadenza sono sintomi della stessa cosa: un calo dell'interesse degli investitori per tali strumenti proprio nel momento in cui molti ministeri delle finanze stanno pianificando livelli record di emissione e mentre l'economia mondiale entra in una nuova era incerta. Per la prima volta in quasi una generazione, i governi stanno iniziando a incontrare la resistenza del mercato quando cercano di vendere titoli di Stato a lungo termine.

"È un classico problema di squilibrio tra domanda e offerta, ma su scala globale", afferma Amanda Stitt, specialista del reddito fisso presso il gestore patrimoniale da 1,6 trilioni di dollari T Rowe Price. "L'era dei finanziamenti a basso costo e a lungo termine è finita e ora i governi si stanno accalcando in una stanza affollata di venditori". La reticenza di alcuni investitori ha portato i costi di indebitamento del governo a 30 anni in paesi come Regno Unito, Giappone e Stati Uniti ai massimi da decenni o quasi, e ha spostato la questione della sostenibilità del debito in cima all'agenda politica. In molti paesi, il crescente costo del servizio degli interessi sul debito minaccia di ridurre la spesa pubblica in altri settori. L'aumento dell'offerta, dovuto sia all'aumento dei prestiti governativi, sia alla vendita da parte delle banche centrali delle obbligazioni acquistate in seguito alla crisi finanziaria e alla pandemia di Covid-19, si sta scontrando con un calo della domanda da parte di alcuni acquirenti tradizionali come i fondi pensione e le compagnie di assicurazione sulla vita.


Gli esercenti indebitati rischiano di diventare più vulnerabili alla resistenza degli investitori obbligazionari. Le schermaglie sulla politica commerciale degli Stati Uniti quest'anno e la famigerata crisi dei gilt del 2022 che ha seguito il "mini" bilancio del Regno Unito sono un indicatore di ciò che accadrà se le finanze pubbliche non verranno inasprite, avvertono i veterani degli investimenti. Le ramificazioni, sia per come vengono gestite le economie sia per le prospettive per il settore aziendale, potrebbero essere significative e diffuse. "Il mercato obbligazionario non è mai stato così potente, perché non abbiamo mai avuto così tanto debito", afferma Ed Yardeni, l'economista che ha coniato il termine "bond vigilantes" negli anni '80 per descrivere gli investitori le cui attività hanno spinto i governi a rafforzare le finanze pubbliche. "Dobbiamo guardare al [problema del debito] a livello globale ora", aggiunge, citando l'aumento dei costi di indebitamento nel Regno Unito, in Giappone e altrove. "Il rischio è: i bond vigilantes di tutto il mondo si uniscano".

Nel cuore dell'economia globale, i rendimenti a lungo termine del mercato dei titoli del Tesoro USA da 29.000 miliardi di dollari hanno superato il 5% nelle ultime settimane, vicini ai livelli raggiunti nel 2023 – quando gli investitori temevano che i tassi di interesse avrebbero dovuto rimanere più alti per più tempo per contenere l'inflazione – e prima ancora ai massimi dalla crisi finanziaria. Questo accade proprio mentre un disegno di legge su tasse e spesa che potrebbe aggiungere oltre 2.000 miliardi di dollari al debito americano sta attraversando il Congresso, e mentre continuano le ricadute dell'imposizione di dazi sui partner commerciali del presidente Donald Trump. Alcune delle figure di spicco di Wall Street hanno lanciato l'allarme sulla situazione fiscale del Paese.

  1. Jamie Dimon, amministratore delegato di JPMorgan Chase, ha avvertito la scorsa settimana che l'aumento del debito potrebbe "crackare" il mercato dei titoli del Tesoro, spingendo il segretario al Tesoro Scott Bessent a rassicurare sul fatto che gli Stati Uniti "non saranno mai inadempienti" rispetto ai propri obblighi.

  2. Il segretario al Tesoro Scott Bessent, a sinistra, ha cercato di placare il nervosismo del mercato in seguito agli annunci sui dazi e alle critiche della Casa Bianca al presidente della Federal Reserve Jay Powell

  3. Giovedì, l'amministratore delegato di BlackRock Larry Fink ha affermato che se l'economia continua a crescere a un ritmo intorno al 2%, "i deficit travolgeranno questo Paese", mentre il fondatore di Citadel Ken Griffin ha affermato che è "semplicemente irresponsabile dal punto di vista fiscale" registrare deficit del 6 o 7% del PIL in condizioni di piena occupazione.

  4. Elon Musk, il miliardario della tecnologia che fino a poco tempo fa era una presenza fissa alla Casa Bianca di Trump, ha descritto il disegno di legge come un "abominio disgustoso" e ha affermato che il Congresso stava "facendo fallire l'America".

L'anno scorso, l'onere del debito francese è stato descritto come una "spada di Damocle" dall'allora primo ministro Michel Barnier.

Si prevede che la terza economia europea spenderà 62 miliardi di euro in interessi sul debito quest’anno, all’incirca l’equivalente della spesa combinata per difesa e istruzione, escluse le pensioni. Nel Regno Unito, i costi di indebitamento del governo a 30 anni hanno raggiunto quest’anno i livelli più alti dal 1998, tra le preoccupazioni degli investitori per la crescente massa di debito e la mancanza di margine di manovra dei ministri rispetto alle loro regole fiscali autoimposte.

Anche la Germania, un paese storicamente reticente al prestito con livelli di debito molto più bassi, sta pianificando di aumentare l'emissione di Bund. In Giappone, dove la politica monetaria estremamente accomodante della banca centrale ha mantenuto i rendimenti a lunga scadenza al di sotto dell'1% per anni, una brutale svendita li ha portati a massimi storici. Il rendimento trentennale dei titoli di Stato giapponesi si aggira intorno al 3%.

I ministri delle finanze hanno alcune leve da utilizzare. Alcuni sono passati a una maggiore emissione di debito a breve termine, dove i rendimenti sono più una funzione dei tassi di interesse e meno delle dinamiche di offerta e inflazione. Le banche centrali potrebbero anche sospendere la liquidazione delle partecipazioni obbligazionarie accumulate a seguito di crisi. Ma a meno di un forte aumento della crescita, ridurre la spesa incontrollata è l'unica soluzione duratura, affermano i gestori di fondi. Craig Inches, responsabile tassi e liquidità di Royal London Asset Management, afferma che l'eccessivo indebitamento è la causa principale dell'indigestione nei mercati del debito a lungo termine, costringendo a decisioni difficili sui tagli ai costi. “La domanda è: i governi hanno lo stomaco per farlo?”

I costi di indebitamento sono aumentati in modo esponenziale sin dalla pandemia di Covid, con l’aumento dell’inflazione e la riduzione degli acquisti da parte delle banche centrali. Ma le recenti vendite si sono fatte sentire soprattutto sul debito a lungo termine, dove i prezzi sono scesi più rapidamente e i rendimenti sono aumentati più che sulle obbligazioni a breve termine. Il divario di rendimento tra i titoli del Tesoro USA a due e trent’anni ha raggiunto circa un punto percentuale, il livello più alto degli ultimi tre anni, con un’inclinazione simile altrove. Molti grandi gestori di fondi scommettono sul fatto che le cosiddette curve dei rendimenti, che mostrano il costo del denaro in prestito a diverse scadenze obbligazionarie, continueranno ad inclinarsi. Questo è un problema per i governi, che emettono debito a diverse scadenze non solo per soddisfare le esigenze dei diversi investitori, ma anche per distribuire i propri rifinanziamenti e ridurre la propria esposizione alle oscillazioni dei tassi di interesse di mercato.

Nonostante tali strategie di gestione, i costi degli interessi sul debito pubblico per il gruppo di nazioni ricche dell’OCSE hanno già raggiunto il livello più alto almeno dal 2007. In molti casi, la spesa per gli interessi sul debito supera i bilanci dei grandi dipartimenti governativi come la difesa o l’istruzione. Le banche centrali nella maggior parte delle grandi economie sono ancora sulla strada del taglio dei tassi di interesse, il che ha mantenuto i tassi a breve termine relativamente ben vincolati. Ma hanno meno influenza sui costi di indebitamento a lungo termine. In questo caso, le aspettative degli investitori sull’inflazione – che possono eviscerare i rendimenti fissi offerti dalle obbligazioni – e le preoccupazioni per l’eccesso di offerta sono anch’esse cruciali. Le misure del cosiddetto premio a termine, una misura teorica della parte del tasso di interesse a lungo termine che compensa gli investitori per questa incertezza, sono in aumento. La maggior parte degli analisti ritiene che i tassi di interesse a lungo termine continueranno a salire, aiutati dalle scommesse “steepener” degli investitori.

I prezzi dei titoli di Stato fungono anche da parametro di riferimento per i costi di indebitamento delle aziende, quindi un problema più profondo nella parte a lungo termine della curva si riverserà anche sui costi di indebitamento delle aziende. Il governatore della Banca del Giappone, Kazuo Ueda, arriva a una riunione di definizione delle politiche a Tokyo il mese scorso. I rendimenti dei titoli di Stato giapponesi hanno raggiunto massimi storici dopo le vendite delle ultime settimane © Kyodo/Reuters "Più alti sono quei tassi e minore è il controllo che le banche centrali hanno sul lungo termine, maggiore è la pressione che ciò esercita sul settore privato", afferma Mike Scott, responsabile dell'high yield globale di Man Group.

I dubbi sulla domanda di debito sovrano a lungo termine sono stati esacerbati dall'esodo di alcuni degli acquirenti più affidabili di questi titoli di Stato. Nel Regno Unito, i tradizionali fondi pensione aziendali a "beneficio definito" hanno per lo più chiuso i battenti e i loro iscritti esistenti stanno invecchiando, il che significa che hanno meno bisogno di debito a lungo termine. Il loro posto nel mercato dei gilt viene sempre più preso dagli hedge fund che desiderano obbligazioni a breve termine.

Un effetto simile si sta verificando in Giappone, dove la generazione del baby boom del dopoguerra sta invecchiando e non ha più bisogno dello stesso livello di titoli di debito a lungo termine, affermano gli analisti. Ciò si è combinato con una ripresa dell'inflazione, alimentando una svendita che ha portato i rendimenti dei titoli di Stato giapponesi a massimi storici nelle ultime settimane. Una delle scommesse più affidabili nel mercato obbligazionario globale a lungo termine sta svanendo. "I governi di tutto il mondo sviluppato stanno emettendo più debito sul mercato, proprio mentre la loro ancora, i JGB, si sta slegando", afferma James Novotny, gestore degli investimenti di Jupiter Asset Management.

I ministri delle finanze e i gestori del debito hanno cercato di attenuare il colpo derivante dall'aumento dei costi di indebitamento del mercato. Il Debt Management Office del Regno Unito ha intrapreso quest'anno una riduzione delle vendite di debito a lungo termine, con il suo amministratore delegato che ha citato il "calo della forza" della domanda di debito a più lunga scadenza e la necessità di mantenere il rapporto qualità-prezzo per il contribuente. In Giappone, il governo ha innescato speculazioni sul fatto che avrebbe fatto una mossa simile quando ha sondato il mercato il mese scorso sui suoi piani di emissione.

"I governi di tutto il mondo sviluppato stanno emettendo più debito sul mercato, proprio mentre la loro ancora, i JGB, si sgancia", afferma James Novotny, gestore degli investimenti di Jupiter Asset Management. I ministri delle finanze e i gestori del debito hanno cercato di attutire il colpo derivante dall'aumento dei costi di indebitamento del mercato. Quest'anno, il Debt Management Office del Regno Unito ha deciso di ridurre le vendite di debito a lungo termine, con il suo amministratore delegato che ha citato il "calo della forza" della domanda di debito a più lunga scadenza e la necessità di mantenere il rapporto qualità-prezzo per il contribuente. In Giappone, il governo ha innescato speculazioni sul fatto che avrebbe fatto una mossa simile quando ha sondato il mercato il mese scorso sui suoi piani di emissione.

Ci sono precedenti per azioni più forti: nel 2001, gli Stati Uniti hanno sospeso completamente le vendite di debito trentennale. E negli Stati Uniti, nonostante le ripetute critiche di Bessent alla sua predecessora Janet Yellen per aver fatto più affidamento sull'emissione di debito a breve termine, ha affermato che qualsiasi mossa per "ridurre" le scadenze del debito sarebbe "dipendente dal percorso" e ha suggerito invece che potrebbe aumentare i suoi riacquisti di debito più vecchio. La quantità di margine di manovra di cui dispongono i paesi dipende dal profilo delle loro scadenze esistenti. Il Regno Unito si trova in una posizione relativamente sana, dato che la scadenza media del suo stock di debito è di 14 anni.

Ma alcuni investitori avvertono che l'accorciamento delle scadenze del debito rende i paesi più suscettibili ai rischi di rifinanziamento, una caratteristica più familiare nei mercati emergenti. "[Ciò] non risolverà il problema di domanda di fondo, limitandosi a spingerlo verso il basso lungo la curva", afferma Stitt di T Rowe. Esistono altri strumenti. Le banche centrali potrebbero anche interrompere o ridurre le loro vendite di debito sovrano accumulate durante i precedenti programmi di emergenza, il cosiddetto quantitative tightening per smantellare il quantitative easing. Andrew Bailey, governatore della Banca d'Inghilterra, partecipa a una conferenza stampa a Londra. Molti considerano il "mini" bilancio del Regno Unito nel 2022 un segnale di ciò che accadrà se le finanze pubbliche non verranno inasprite Moyeen Islam di Barclays ha sostenuto in una nota recente che c'era "un merito significativo in una pausa nelle vendite attive" da parte della Banca d'Inghilterra, affermando che potrebbe contribuire a risollevare i gilt e avere "significative conseguenze positive per le prospettive di bilancio". La banca dovrebbe annunciare a settembre quanto venderà sul mercato nel prossimo anno come parte del proprio QT, sebbene in una lettera al Tesoro il mese scorso, il governatore della BoE Andrew Bailey abbia affermato che non c'erano "prove che le vendite di gilt abbiano avuto un impatto negativo sul funzionamento del mercato attraverso una serie di misure dei mercati finanziari".

Le banche centrali sono consapevoli anche dell'effetto della svendita del debito a lungo termine sulla politica monetaria. Catherine Mann, membro del comitato per la definizione dei tassi della BoE, ha affermato in un recente discorso che è "importante per un responsabile della politica monetaria considerare le interazioni tra il QT e le decisioni sui tassi di interesse, soprattutto in un momento in cui questi due strumenti agiscono in direzioni diverse". Gli effetti del QT sul restringimento delle condizioni finanziarie "non possono essere perfettamente compensati" dai tagli dei tassi di interesse, ha avvertito, e "la combinazione di strumenti e dei loro effetti macroeconomici deve essere attentamente considerata".

L'andamento delle finanze pubbliche degli Stati Uniti, il maggiore debitore al mondo, sarà cruciale per stabilire se il mondo riuscirà a superare l'eccesso di debito a lungo termine. Il Congressional Budget Office ha affermato mercoledì che il "grande e bellissimo disegno di legge" autoproclamato di Trump estenderebbe il deficit di bilancio e aggiungerebbe 2,4 trilioni di dollari al debito pubblico entro il 2034. Agli Stati Uniti è stata a lungo concessa maggiore flessibilità rispetto ad altri paesi nelle sue finanze pubbliche, dato il ruolo centrale del dollaro nel commercio e nella finanza globali e lo status dei titoli del Tesoro come attività di riserva mondiale. Hemingway descrisse il percorso verso l'insolvenza come "gradualmente, poi improvvisamente". È probabile che gli Stati Uniti rimangano nella parte "gradualmente"... molto probabilmente per sempre. Ma gli analisti hanno avvertito sempre più che un aumento delle vendite di debito a lungo termine del paese, proprio mentre gli investitori globali stanno mostrando segni di diversificazione dagli asset in dollari, potrebbe creare le condizioni per un incidente. Gli Stati Uniti hanno perso il loro ultimo rating di credito AAA a maggio, quando Moody's ha avvertito del deterioramento delle dinamiche del debito.

L'ansia è già alta sul mercato dopo la svendita della guerra commerciale di aprile e le bordate di Trump contro Jay Powell, presidente della Federal Reserve, che hanno destabilizzato la fiducia dei grandi investitori nell'indipendenza della Fed e le implicazioni per il controllo dell'inflazione a lungo termine. Il disegno di legge sta "gettando un po' più di benzina sul fuoco" ai problemi del debito statunitense, afferma April LaRusse, responsabile degli specialisti di investimento presso Insight Investment, un grande investitore a reddito fisso. “Sembra piuttosto negativo” in termini di impatto sul deficit, aggiunge, “anche se si fanno alcune ipotesi ragionevoli” sulle entrate che i dazi potrebbero portare. Una preoccupazione è che il deterioramento delle dinamiche del debito in alcuni paesi li rende meno resilienti a future sorprese o cattive scelte politiche.

In una manciata di paesi, il debito è sostenibile ma vulnerabile a nuovi shock", afferma Peder Beck-Friis, economista del colosso obbligazionario Pimco. Cita il Regno Unito e l'Italia come esempi. In altri, come gli Stati Uniti e la Francia - che hanno avuto un bilancio in pareggio l'ultima volta nel 1974 - il debito sembra essere "molto insostenibile con l'attuale percorso" senza un certo grado di consolidamento, sostiene. Container a Long Beach, California. Il ruolo centrale del dollaro nel commercio e nella finanza globali ha da tempo concesso agli Stati Uniti una maggiore flessibilità rispetto ad altre nazioni sul loro debito pubblico © Kyle Grillot/Bloomberg Altri credono che gli Stati Uniti e altre nazioni siano sull'orlo di una crisi di sostenibilità del debito. L'investitore veterano Ray Dalio ha messo in guardia da una "spirale mortale" in cui i costi di prestito sono costretti a salire in un ciclo che si autoavvera.

Ma la maggior parte degli investitori pensa che gli Stati Uniti possano sfuggire a questa trappola, in parte grazie alla pressione del mercato obbligazionario. "Hemingway ha descritto il percorso verso l'insolvenza come 'gradualmente, poi improvvisamente'", ha scritto Steve Englander della Standard Chartered in una nota recente. "Gli Stati Uniti, a nostro avviso, probabilmente rimarranno dalla parte del 'gradualmente' per un periodo prolungato, molto probabilmente per sempre". Un'altra opzione è che i paesi erodano il valore reale del loro debito tollerando un livello di inflazione più elevato di quello che avrebbero altrimenti avuto. "Un default effettivo attraverso il rischio di inflazione potrebbe diventare un rischio materiale", avverte Englander.

Il pericolo è che la spesa pubblica e la necessità di mantenere ordinati i mercati del debito diventino una forza dominante per la politica monetaria, piuttosto che altri fattori come la crescita economica o l'inflazione. "Ciò che mi preoccupa davvero è che si finisca nella storia della dominanza fiscale", afferma Bill Campbell, gestore di fondi di DoubleLine Capital, dove l'aumento del debito pubblico e della spesa "spiazzano" gli investimenti privati. Ciò, avverte, potrebbe portare a una "traiettoria di crescita permanentemente più lenta, a un malessere a lungo termine dovuto a una crescita inferiore e a un enorme debito eccessivo". Per molti investitori, gli effetti negativi economici del lungo accumulo di debito sovrano sono una preoccupazione maggiore della più remota possibilità di un crollo dei titoli di Stato in una grande economia.

"Non è il nostro scenario di base quello di un'esplosione del debito", afferma Jamie Patton, gestore di fondi obbligazionari presso la società di investimento statunitense TCW. "[Ma] come contribuente e cittadino statunitense, sono profondamente preoccupato", aggiunge, descrivendo un Congresso che ha progressivamente "minore capacità" di prendere decisioni in materia di tasse e spesa. "Abbiamo un grosso problema tra le mani".

Ci sarà una via d’uscita? Sicuramente sì, c’è sempre una via di uscita. Ottimismo, ottimismo!

Ma … diventa importante il come.

Come se ne esce? Meglio ancora: a chi verrà chiesto di pagare? Chi pagherà il conto di questi squilibri, di scelte politiche azzardate e (alla prova dei fatti) fallimentari?

Qualcuno di voi (molti, forse la maggioranza) ancora pensano, sperano e sognano in un intervento salvifico, in una Mano Santa che cala dall’alto: quella delle Banche Centrali. Così che, alla fine della fiera … nessuno debba pagare nulla.

Non succederà: le cose non andranno così, semplicemente perché … è impossibile. Non si può rinviare sempre di saldare i conti in sospeso al ristorante, al bar, in gastronomia, in albergo.

E’ impossibile rinviare in eterno: e questa volta, a qualcuno toccherà di pagare come ha detto questa settimana Jeff Gundlach: “è il momento della resa dei conti”. E potreste essere voi, a pagare: proprio voi, che state leggendo questo Post.

Questo concetto lo sviluppiamo nel dettaglio grazie al contributo che potete leggere, tradotto per voi, qui si seguito.

Perché questo punto è particolarmente rilevante?

Lo avete già letto nel titolo del nostro Post: le Banche Centrali non ci “salveranno” perché tutto il periodo dal 2012 al 2022 è stata una (enorme) aberrazione, una clamorosa anomalia, una grave distorsione del sistema.

Dal 2022 si è avviata una Nuova Era, c’è stato un Cambio di Paradigma (come vi avevamo anticipato fin dal 2023), ed ora siamo in piena normalizzazione. Proprio come dice il nostro titolo di oggi.

Lasciandovi alla lettura di questo importante contributo, vogliamo ritornare rapidamente al tema della guerra. E vogliamo chiarire al nostro lettore che eventi tragici e luttuosi come la guerra non sono del tutto disgiunti dagli squilibri, e dalle fortissime tensioni, che osserviamo in ambito economico. Oggi, più che nel passato, la guerra è la manifestazione della impossibilità di risolvere gli squilibri in modo pacifico. E l’impossibilità di risolvere attraverso la mediazione deriva proprio dai limitati spazi di manovra. Come Recce’d ha scritto, in numerose occasioni, non ci sono più soldi: la tensione si accumula, e poi si sfoga anche nella guerra, oppure nei tumulti della California.


Giovedì scorso, tagliando i tassi al 2%, la Banca Centrale Europea ha dichiarato di essere in una "buona posizione" per affrontare le incerte condizioni che la attendono nei mesi a venire. Donald Trump si è poi lamentato del fatto che la Federal Reserve non fosse ben posizionata per gestire qualsiasi capriccio politico gli piacesse. La Fed ignorerà la sua ultima lamentela. Molto più difficile da ignorare è stato il forte aumento dei rendimenti obbligazionari a lungo termine in molte economie avanzate. I rendimenti hanno raggiunto i massimi da decenni in Giappone e nel Regno Unito. I governi statunitense e giapponese hanno talvolta faticato a vendere debito a lungo termine. E mentre i rendimenti obbligazionari statunitensi sono aumentati, il dollaro è sceso, suggerendo una certa resistenza degli investitori agli asset statunitensi. Grafici allarmanti come quelli qui sotto si possono trovare in numerosi articoli e note degli analisti.

Queste variazioni dei costi di indebitamento del governo riflettono forse il "One Big Beautiful Bill Act", dal nome ironico, approvato dalla Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti? Sta spaventando gli investitori così come l'ex consigliere del governo Elon Musk? Il debito di altri Paesi è forse contaminato dal rischio di contagio proveniente dagli Stati Uniti, dove la politica fiscale sta deragliando? Si tratta semplicemente di una normalizzazione dopo un periodo anomalo di rendimenti insolitamente bassi dei titoli di Stato?

Nessuno può ancora essere sicuro delle risposte. Ragionare in base alle variazioni di prezzo è sempre pericoloso.

Quindi, porrò una domanda più semplice: cosa dovrebbero fare le banche centrali per quanto riguarda l'aumento dei rendimenti dei titoli di Stato a lungo termine, se mai lo faranno? Avanti, cosa?

L'aggettivo "se mai lo faranno" è importante perché il principale strumento di politica monetaria delle banche centrali è il tasso di interesse a breve termine, la cui influenza diminuisce con l'allungarsi dell'orizzonte temporale.

Naturalmente, il quantitative easing è stato progettato per abbassare i tassi di interesse a lungo termine creando moneta e aumentando la domanda di titoli di Stato a più lunga scadenza, quindi gli effetti netti delle politiche di bilancio delle banche centrali sono importanti. Tuttavia, il ragionamento di base dovrebbe essere che la domanda degli investitori governi il segmento a lungo termine della curva dei rendimenti dei titoli di Stato, mentre la politica monetaria controlla il segmento a breve termine. Le oscillazioni dei rendimenti dei titoli di Stato a lungo termine ci forniscono informazioni importanti sul sentiment degli investitori, e ci comportiamo in modo scorretto a nostro rischio e pericolo, a meno che non ci troviamo in una crisi economica.

Ci sono tuttavia motivi per cui una banca centrale con un obiettivo di inflazione dovrebbe essere coinvolta e preoccupata dagli aumenti dei rendimenti dei titoli di Stato a lunga scadenza. Il principale sarebbe se la reticenza degli investitori suggerisse una mancanza di fiducia nella capacità delle banche centrali di controllare l'inflazione. Possiamo esaminare questo aspetto osservando la differenza tra i rendimenti nominali dei titoli di Stato e quelli dei titoli indicizzati all'inflazione della stessa durata, che mostra le aspettative di mercato sull'inflazione futura su diversi orizzonti temporali. Il grafico seguente mostra questi break-even di inflazione per Stati Uniti, Regno Unito, Germania, Francia e Giappone, e chiaramente per il momento non vi è alcun problema.

Il grafico ci dice che gli investitori non temono attualmente che l'inflazione diventi il ​​meccanismo di default utilizzato dai governi per erodere il proprio debito. Nei prezzi questo non si vede. Per ora.

I livelli di inflazione attesi variano da paese a paese, ma questo è principalmente il risultato di un divario tra l'indice dei prezzi utilizzato nelle obbligazioni indicizzate all'inflazione e la misura presa di mira dalle banche centrali. Fortunatamente, possiamo quindi ignorare l'argomentazione secondo cui le banche centrali avrebbero perso credibilità come causa della recente variazione dei rendimenti.

Una seconda preoccupazione che probabilmente possiamo anche accantonare è che i rendimenti obbligazionari a lungo termine stanno aumentando a causa del contagio dagli Stati Uniti. La correlazione tra i rendimenti obbligazionari nei diversi paesi non è così stretta. I rendimenti dei Bund tedeschi a lungo termine, ad esempio, sono aumentati a marzo, quando l'Unione Cristiano-Democratica di Friedrich Merz ha dichiarato la vittoria alle elezioni federali e gli investitori hanno previsto forti aumenti della spesa per la difesa e le infrastrutture. I rendimenti giapponesi sono aumentati perché le compagnie di assicurazione sulla vita hanno smesso di acquistare obbligazioni a lungo termine dopo aver soddisfatto le norme di solvibilità nazionali. Come mostra il grafico sottostante, la correlazione tra i movimenti dei rendimenti obbligazionari è stata tutt'altro che perfetta sia a breve che a lungo termine.

Dall'insediamento di Trump, i rendimenti obbligazionari sono rimasti invariati o in calo in Europa e negli Stati Uniti fino all'orizzonte decennale, mentre sono aumentati in Giappone, riflettendo principalmente le variazioni previste dei tassi di interesse. Sono aumentati ovunque sull'orizzonte trentennale, ma le variazioni sono oggettivamente contenute. Osservare le variazioni dal "giorno della liberazione": gli Stati Uniti rappresentano un'eccezione naturale, con aumenti dei rendimenti su tutte le scadenze.

I rendimenti trentennali dell'Eurozona sono diminuiti. Nessuno dovrebbe parlare con sicurezza delle ricadute dagli Stati Uniti. Le banche centrali non dovrebbero usare questo come giustificazione per i tagli dei tassi. Una terza ragione per cui le banche centrali dovrebbero intervenire sarebbe allentare le condizioni finanziarie che potrebbero essersi inasprite con l'aumento dei rendimenti delle obbligazioni a lungo termine. Attenzione. Le condizioni finanziarie statunitensi, misurate dalla Fed di Chicago, si sono inasprite dopo il "giorno della liberazione", ma da allora si sono allentate. La presidente della BCE Christine Lagarde ha dichiarato giovedì scorso che si erano allentate in modo analogo in Europa, generando prezzi azionari più elevati, spread sulle obbligazioni societarie più bassi e tassi di interesse societari più bassi.

Nel Regno Unito, Sarah Breeden, vicegovernatrice della Banca d'Inghilterra per la stabilità finanziaria, ha dichiarato al parlamento che il fenomeno dell'aumento dei tassi delle obbligazioni a lungo termine "non ha molta importanza dal punto di vista della politica monetaria" perché "i tassi che contano per le imprese e le famiglie sono quelli a breve termine". Ha assolutamente ragione. Sebbene la sua opinione sollevi interrogativi imbarazzanti sul perché la Banca d'Inghilterra abbia rischiato e perso molti miliardi di sterline acquistando enormi obbligazioni a lunga scadenza nel suo programma di quantitative easing per qualcosa che "non ha molta importanza" per l'economia del Regno Unito, in un discorso della scorsa settimana, Catherine Mann, membro esterno del Comitato di Politica Monetaria, ha avvertito che era, in ogni caso, molto difficile per la Banca d'Inghilterra compensare chirurgicamente qualsiasi aumento dei rendimenti delle obbligazioni a lunga scadenza con tagli dei tassi di interesse a breve termine.

Le banche centrali dovrebbero non fare nulla? Finché ci saranno poche preoccupazioni per la stabilità finanziaria, la risposta è generalmente "sì", non dovrebbero fare nulla. Questo è principalmente un problema fiscale.

In parte perché le obbligazioni a lunga scadenza sono fuori moda, e in parte perché i fondi pensione non hanno bisogno di tanti nuovi asset a lungo termine quanto i loro piani di risparmio, la domanda di obbligazioni a lunga scadenza è diminuita. Sfortunatamente per i governi, questo avviene in un momento in cui vogliono emettere molto nuovo debito. Le banche centrali potrebbero modificare opportunamente i loro programmi di inasprimento quantitativo per vendere un po' meno debito a lunga scadenza, ma la BoE è l'unica banca centrale in questo settore e i numeri sono esigui. Invece, se i governi vogliono vedere minori costi di indebitamento per il debito a lungo termine, dovranno contenere i deficit di bilancio. Potrebbero anche cercare di emettere meno debito a lungo termine nel frattempo, finché non ci sarà maggiore fiducia nelle finanze pubbliche.

Il Regno Unito sta facendo proprio questo, con il Debt Management Office del paese che ha dimezzato la quantità di obbligazioni a lunga scadenza emesse nel 2025-26 rispetto all'esercizio finanziario precedente. In Giappone, l'aumento dei rendimenti è stato attenuato da una consultazione governativa sull'opportunità di ridurre le emissioni. E negli Stati Uniti, il Segretario al Tesoro Scott Bessent è rimasto piuttosto in silenzio sulla sua precedente insistenza sul fatto che il debito pubblico statunitense fosse troppo a breve termine. Ma queste sono misure temporanee.

La soluzione definitiva con finanze pubbliche più resilienti è ancora lontana.

Valter Buffo
Detox: inizia adesso l’estate calda. I suggerimenti di Recce’d per non finire scottati (o anche bruciati)
 

Siete pronti per i primi weekend al mare?

Oppure preferite le escursioni in montagna?

Avete già preparato creme solari e costume? Cruciverba e sedia sdraio?

Oppure state verificando scarponi e bastoncini, moschettoni e borraccia termica?

Noi di Recce’d vogliamo renderci utili anche per le vostre imminenti escursioni, per i weekend di relax al mare oppure sulla barca, e financo per le vostre prossime vacanze agostane.

Come sapete, Recce’d attraverso il Blog vi fornisce con regolarità contributi pratici di qualità elevata: la più elevata in Italia.

Selezionando contributi esterni, ordinandoli, commentandoli e collegandoli fra loro Recce’d con regolarità fornisce spunti e indicazioni pratiche per la strategia di investimento da seguire, per la asset allocation da adottare, e per le future opportunità da cogliere.

Opportunità che in questa fase di mercato (il passaggio ad una Nuova Era) sono particolarmente grandi, e facili da individuare.

Trovate quindi, in questa seri Detox, ed in particolare in questo nuovo Post, utili elenchi dei fattori a cui dovrete prestare attenzione nelle prossime settimane. Anche mentre siete in siaggia, oppure sulla cima del monte che avete intenzione di scalare.

Perché i mercati finanziari non chiudono per ferie, non hanno mai chiuso per fersie, ed in molte occasioni hanno invece accelerato.

Godetevi pure le vostre meritate vacanze: ma non mandate in vacanz ail cervello perché i mercati finanziari non vanno mai in vacanza.

Inizieremo oggi mettendo alla vostra attenzione a che cosa stanno guardando oggi le Banche Centrali: le quali, a differenza di ciò che fanno in questo momento tutti i social e tutti i media, non dedicano tutta la loro attenzione al tema delle “tariffe”.

E se non si concentrano sulle tariffe, allora di che cosa si stanno occupando? Quali analisi stanno facendo? Quali temi sono in evidenza sui tavli delle decisioni?

Leggiamolo qui sotto, nel primo contributo di oggi.

El-Erian ha sottolineato che le quattro principali sfide che la Federal Reserve si trova ad affrontare includono: l'instabile politica tariffaria statunitense, l'incertezza nella politica fiscale del governo, le discrepanze anomale tra i dati economici hard e soft e l'impatto imprevedibile di tecnologie innovative come l'intelligenza artificiale. Ha suggerito che la Federal Reserve adotti una strategia che combini difesa e attacco, affrontando le sfide attraverso meccanismi di comunicazione migliorati, quadri politici rafforzati e valutando aggiustamenti agli obiettivi di inflazione, promuovendo al contempo riforme sistematiche della politica monetaria per adattarsi ai cambiamenti nella struttura economica.

Il consulente economico capo della nota società di gestione degli investimenti Allianz, Mohamed El-Erian, ha recentemente pubblicato un articolo di analisi approfondita sul Financial Times, fornendo un'analisi completa delle sfide che la Federal Reserve si trova attualmente ad affrontare. Economista esperto, in precedenza CEO di Pacific Investment Management Company (PIMCO), El-Erian vanta una vasta esperienza e una profonda conoscenza della macroeconomia globale e della politica monetaria.

Nell'articolo intitolato "L'estate difficile della Federal Reserve", El-Erian sottolinea che la Federal Reserve avrebbe dovuto poter dichiarare "missione compiuta", segnando la fine di un prolungato periodo di elevata inflazione negli Stati Uniti. Tuttavia, la realtà è esattamente l'opposto, poiché la Federal Reserve si trova ad affrontare sfide senza precedenti.

El-Erian descrive nel suo articolo le molteplici sfide che la Federal Reserve si trova ad affrontare, che vanno dall'incertezza politica ai dati economici contrastanti, dalle pressioni esterne alle carenze del quadro interno. Egli ritiene che:

La Federal Reserve si trova in un periodo di "straordinaria incertezza economica", e deve promuovere attivamente la riforma del suo quadro di politica monetaria, affrontando al contempo le sfide attuali. In particolare, El-Erian ha anche proposto strategie specifiche per la Federal Reserve, tra cui il miglioramento dei meccanismi di comunicazione, l'affinamento del quadro di riferimento e la valutazione di aggiustamenti all'obiettivo di inflazione.

La situazione difficile che la Federal Reserve sta attualmente affrontando può essere descritta come una combinazione perfetta di diversi fattori avversi. El-Erian afferma senza mezzi termini all'inizio dell'articolo:

"Le cose non sarebbero dovute andare così. A questo punto, la Federal Reserve avrebbe dovuto poter dichiarare 'missione compiuta', segnando la fine di un periodo di inflazione negli Stati Uniti che ha superato le aspettative ed è durato troppo a lungo".

Tuttavia, la realtà è che la Federal Reserve deve affrontare una situazione quest'estate in cui entrambi i suoi obiettivi (bassa inflazione e piena occupazione) sono a rischio. A complicare ulteriormente le cose, la banca centrale deve continuare a respingere gli attacchi della Casa Bianca, soprattutto dopo che la Federal Reserve ha lasciato intendere che è improbabile che eventuali tagli dei tassi di interesse quest'anno si verifichino prima di settembre.

Oltre a queste pressioni politiche dirette, la Federal Reserve si trova ad affrontare anche sfide strutturali più profonde. El-Erian menziona specificamente la recente debolezza del dollaro, che "solleva interrogativi scomodi sul suo ruolo a lungo termine nell'economia globale e sullo status del mercato finanziario statunitense come indiscusso destinatario del risparmio estero". Questa affermazione rivela le potenziali minacce all'egemonia finanziaria statunitense.

El-Erian identifica quattro fattori chiave che hanno portato all'attuale incertezza economica senza precedenti.

  1. Il primo è la natura imprevedibile della politica tariffaria statunitense. El-Erian solleva una domanda cruciale: "Si tratta di una strategia di 'escalation to de-escalation', che garantisce un sistema commerciale più equo attraverso l'aumento dei dazi, e forse temporaneo? Oppure si tratta dell'istituzione di un nuovo mondo di dazi a lungo termine per aumentare le entrate di bilancio e le attività di rimpatrio manifatturiero?" Questa ambiguità politica agisce come una bomba a orologeria nella formulazione delle politiche economiche. Imprese e investitori non possono prevedere con precisione il futuro contesto commerciale e questa incertezza avrà inevitabilmente un impatto sulle politiche della Federal Reserve.

  2. Il secondo fattore riguarda l'incertezza complessiva delle politiche governative, in particolare in materia di finanza pubblica. El-Erian ha sottolineato: "Il pieno impatto del 'grande e splendido' disegno di legge di bilancio attualmente all'esame del Congresso deve ancora essere visto". Non è inoltre chiaro come evolverà la ridefinizione dell'occupazione e dei contratti pubblici, e manca una chiara visibilità riguardo alla portata, alla forma e alla tempistica dei piani di deregolamentazione della Casa Bianca.

  3. Il terzo fattore è particolarmente interessante: si è verificata un'insolita incoerenza tra i dati economici. "I dati soft che riflettono il sentiment di imprese e famiglie sono stati in rosso per mesi, preannunciando un rallentamento della crescita e un aumento dell'inflazione. Tuttavia, i dati concreti che riflettono il loro comportamento effettivo non hanno ancora confermato nessuna di queste situazioni." "I dati soft che riflettono il sentiment di imprese e famiglie sono stati in rosso per mesi, preannunciando un rallentamento della crescita e un aumento dell'inflazione. Tuttavia, i dati concreti che riflettono il loro comportamento effettivo non hanno ancora confermato nessuna di queste situazioni." El-Erian ritiene che questa divergenza di dati dia l'impressione che i responsabili politici stiano camminando nella nebbia.

  4. Il quarto fattore, sebbene più positivo, è anch'esso pieno di incertezza: il potenziale di aumento della produttività generato dall'innovazione, in particolare dall'intelligenza artificiale. El-Erian ha osservato: "È importante sottolineare che non esiste un consenso unanime sulla portata e la tempistica di tali sviluppi. Questa situazione è simile a quella dei periodi di rivoluzioni tecnologiche nella storia, in cui il potenziale delle nuove tecnologie è enorme, ma i tempi e l'entità del loro impatto effettivo sono difficili da prevedere con precisione. Per la Federal Reserve, questo significa che i modelli economici tradizionali potrebbero non cogliere accuratamente le tendenze economiche future. L'impatto dell'intelligenza artificiale sull'economia potrebbe essere dirompente, ma questa trasformazione sarà graduale o improvvisa? Quali settori saranno interessati per primi? Quanto sarà significativo l'impatto sul mercato del lavoro? Le risposte a queste domande influenzeranno direttamente le politiche della Federal Reserve."

Tutti questi fattori rendono più difficile per la Federal Reserve prevedere e agire di fronte all'aumento dei rischi di stagflazione.

El-Erian ha sottolineato in particolare una questione chiave: l'indebolimento della credibilità delle politiche della Federal Reserve.

Questo è diventato più difficile anche a causa dell'indebolimento della credibilità politica della Federal Reserve, un fattore chiave per un'efficace guida politica lungimirante.

La credibilità politica è come il "soft power" della banca centrale: una volta persa, è difficile recuperarla. Quando gli operatori di mercato iniziano a mettere in discussione gli impegni e le previsioni della Federal Reserve, il meccanismo di trasmissione della politica monetaria ne risente e l'efficacia delle politiche risulta notevolmente ridotta.

Nel complesso contesto attuale, ogni decisione presa dalla Federal Reserve può essere oggetto di scrutinio e critiche da ogni parte. Ricostruire la fiducia del pubblico mantenendo al contempo l'indipendenza è diventata una sfida significativa per la Federal Reserve.

Di fronte a queste sfide, El-Erian ritiene che la Federal Reserve "non abbia altra scelta che adottare una posizione difensiva per gran parte di quest'estate". Tuttavia, ha anche sottolineato che la Federal Reserve non dovrebbe limitarsi alla difesa, ma deve adottare misure offensive introducendo un quadro di politica monetaria più credibile.

"Data la posta in gioco, la banca centrale non ha altra scelta che giocare in difesa per gran parte dell'estate. Tuttavia, non dovrebbe limitarsi a questo."

El-Erian ha proposto una serie di raccomandazioni specifiche di riforma basate sui risultati della ricerca del gruppo di lavoro del G30 a cui ha partecipato. In primo luogo, migliorare il meccanismo di comunicazione, tra cui "la creazione e la pubblicazione di una struttura formale che utilizzi orientamenti politici lungimiranti; la pubblicazione delle previsioni del personale; la fornitura di indicazioni chiare sui compromessi tra occupazione e inflazione; e lo sviluppo di un quadro trasparente per la valutazione dei piani di allentamento quantitativo e di inasprimento della politica monetaria."

Il fulcro di questi suggerimenti è migliorare la trasparenza e la prevedibilità. Quando il mercato riuscirà a comprendere meglio il processo di pensiero e la logica decisionale della Federal Reserve, l'efficacia delle politiche sarà migliorata.

El-Erian ha anche suggerito che la Federal Reserve "utilizzi più apertamente una serie di analisi di scenario", come sostenuto dall'ex presidente della Fed di New York Dudley e da altri. Allo stesso tempo, la banca centrale dovrebbe "migliorare la sua comprensione dettagliata dell'impatto delle forze economiche su famiglie e imprese."

Revisione del target di inflazione: un'opportunità di riforma trascurata?

Infine, El-Erian ha proposto una proposta piuttosto controversa: la Federal Reserve dovrebbe prendere in considerazione la revisione del suo obiettivo di inflazione del 2% quest'anno, sostenendo:

"Dati i significativi cambiamenti nella struttura economica, questo aspetto deve certamente essere preso in considerazione. Tuttavia, la Federal Reserve ha chiaramente e ripetutamente escluso questa possibilità".

L'obiettivo di inflazione del 2% è stato fissato in un contesto economico relativamente stabile, ma nell'attuale era di rapido sviluppo tecnologico, ristrutturazione della catena di approvvigionamento globale e tensioni geopolitiche, questo obiettivo è ancora appropriato?

El-Erian ha lasciato intendere che il rifiuto della Federal Reserve di modificare l'obiettivo di inflazione "potrebbe sembrare una mossa chiaramente difensiva nella situazione attuale, ma è probabile che si riveli un'occasione persa". Questa affermazione suggerisce che aggrapparsi al quadro esistente potrebbe limitare la capacità della Federal Reserve di rispondere a nuove sfide.

L'obiettivo di inflazione del 2% è stato fissato in un contesto economico relativamente stabile, ma nell'attuale era di rapido sviluppo tecnologico, ristrutturazione della catena di approvvigionamento globale e tensioni geopolitiche, questo obiettivo è ancora appropriato?

El-Erian ha lasciato intendere che il rifiuto della Federal Reserve di modificare l'obiettivo di inflazione "potrebbe sembrare una mossa chiaramente difensiva nella situazione attuale, ma è probabile che si riveli un'occasione persa". Questa affermazione suggerisce che aggrapparsi al quadro esistente potrebbe limitare la capacità della Federal Reserve di rispondere alle nuove sfide.

Guardando al futuro, El-Erian ritiene che la Federal Reserve debba trovare nuovi modi di definire le politiche in un contesto di elevata incertezza. Le relazioni economiche tradizionali stanno cambiando e il valore di riferimento dei dati storici sta diminuendo, il che richiede alla banca centrale maggiore adattabilità e innovazione.

Il crescente rischio di stagflazione è una questione particolarmente preoccupante. Questo fenomeno economico ha avuto un impatto significativo sull'economia statunitense negli anni '70 e, se dovesse ripresentarsi nell'attuale contesto complesso, i suoi effetti potrebbero essere ancora più profondi.

L'analisi di El-Erian indica che la Federal Reserve non si trova ad affrontare solo problemi di aggiustamento delle politiche a breve termine, ma anche la necessità di una riforma sistematica del quadro normativo.

Questa riforma include miglioramenti tecnici, come migliori modelli di analisi dei dati e di previsione, nonché potenziamenti istituzionali, come meccanismi di comunicazione più trasparenti e strumenti di policy più flessibili.

L’articolo che avete appena letto ci ha restituito in modo efficace e puntuale il punto di vista della Federal Reserve in questo preciso momento.

Sempre con l’aiuto del nostro amico El Erian, ora è necessario allargare lo sguardo.

Non è possibile comprendere la realtà economica, finanziaria e politica del giugno 2025 restringendo lo sguardo ad un solo Paese, seppure di grandi dimensioni come gli Stati Uniti.

Oggi, nel giugno 2025, ogni investitore (anche chi si limita a comperare BTP e Bund) deve avere conoscenze nel campo della geopolitica.

Non stiamo esagerando oppure drammatizzando ad arte: i prezzi dei BTp, oggi, domani e dopodomani, sono il risultato di equilibri internazionali complessi, e dipendono soltanto in minima misura da ciò che si fa in Italia. Analizzare i BTo, fare scelte sui BTp oggi pensando che il prezzo dei BTp sale oppure scende per quello che fanno e dicono Meloni, Giorgetti, l’opposizione e il Parlamento è un colossale errore di gestione.

La settimana prossima, ogni mattina, ne scriveremo al nostro Cliente in The Morning Brief.

E lo stesso si deve affermare per i Bund, e per qualunque altro asset finanziario che oggi voi tenete nel vostro portafoglio titoli.

Il prossimo contributo, che legge qui sotto, è dedicato alle relazioni internazionali, e più precisamente al tema della geopolitica nel 2025. Geopolitica significa relazioni commerciali internazionali, significa cambiamenti nelle Istituzioni, significa scelte di sicurezza nazionale.

La geopolitica oggi è un fattore determinante, sia per le vostra performance, sia per i rischi che avete già messo oppure che metterete nel vostro portafoglio titoli. A tutti voi, serve capirne di più, vi è indispensabile comprendere meglio ciò che sta succedendo proprio oggi.

27 maggio 2025 Mohamed A. El-Erian

Con le politiche economiche statunitensi che alimentano la volatilità finanziaria ed economica e risvegliano i vigilanti obbligazionari, rimane aperta la questione se stiamo assistendo alla frammentazione dell'ordine internazionale o solo a un percorso accidentato verso una riforma proficua. Cinque fattori potrebbero chiarire la risposta.

CAMBRIDGE – Sebbene quest'anno non sia ancora a metà, è probabile che venga già ricordato nei libri di storia come un anno di estrema volatilità indotta dalle politiche, non solo nei mercati finanziari, ma anche in termini di narrazioni economiche e relazioni internazionali. Ma dove ci porterà resta da vedere. Stiamo assistendo alla frammentazione dell'ordine interno e internazionale degli Stati Uniti o solo a un percorso accidentato verso una riforma proficua di entrambi?

Abbiamo già visto l'S&P 500 quasi precipitare in un mercato ribassista (con un calo del 20% rispetto al recente massimo), per poi risalire e rimanere sostanzialmente invariato per tutto l'anno. I rendimenti obbligazionari sono stati molto variabili, in parte a causa di una prospettiva macroeconomica estremamente volatile. La probabilità di una recessione negli Stati Uniti ha iniziato l'anno al di sotto del 10%, ha raggiunto il picco ad aprile, quasi il 70%, ed è scesa sotto il 40% solo un mese dopo.

E ricordate, gli Stati Uniti non sono solo la più grande economia mondiale. Con istituzioni mature, mercati finanziari solidi e in qualità di emittente della valuta di riserva globale, gli Stati Uniti sono coloro a cui gli altri affidano i propri risparmi e il proprio patrimonio. Ciò che accade negli Stati Uniti non rimane lì. Non c'è da stupirsi che le "misure di incertezza" per aziende e famiglie siano state fuori scala quest'anno. Come osserva Justin Fox, editorialista di Bloomberg, "l'incertezza non è mai stata così incerta".

La causa immediata è la volatilità della politica tariffaria statunitense, che ha provocato reazioni da parte di altri Paesi di importanza sistemica. Ma il commercio non è l'unico problema. Mentre gli Stati Uniti e altri paesi spingono i limiti del debito e del deficit, i vigilanti obbligazionari sono stati risvegliati dal loro torpore. Nel frattempo, le tradizionali correlazioni tra azioni, obbligazioni e valute statunitensi sono state indebolite e i recenti tentativi di ridurre o riformare il settore pubblico sembrano aver suscitato più domande che risposte.

In questo contesto, si riscontra una gamma di opinioni notevolmente ampia tra gli economisti professionisti. Ad esempio, alcuni vedono il recente disgelo delle tensioni commerciali tra Stati Uniti e Cina come un cambiamento fondamentale nell'approccio dell'amministrazione Trump (motivato dal timore di "scaffali vuoti"), mentre altri lo vedono solo come una pausa temporanea che sarà seguita da ulteriori difficoltà.

Lo stesso vale per le relazioni commerciali tra Stati Uniti ed Europa. Alcuni vedono la minaccia di Trump di imporre dazi del 50% sulle importazioni dall'Unione Europea come l'inizio di un processo di rappresaglia che avrà effetti negativi, diretti e indiretti, sia sulle economie che sul resto del mondo. Ma, soprattutto con il rinvio della scadenza iniziale, altri la vedono come un ulteriore segnale del perseguimento da parte degli Stati Uniti di una strategia di "escalation to de-escalation".

Al di sopra di queste differenze incombe la domanda se l'economia statunitense e globale si stia fondamentalmente rinnovando.

Il dentifricio è già stato spremuto fuori dal tubetto o le attuali turbolenze saranno più simili all'esperienza del COVID-19, quando siamo tornati in gran parte al punto di partenza?

Cinque questioni determineranno la direzione da prendere.

  1. La prima sono i dazi. Gli ultimi colpi di scena potrebbero far supporre che l'obiettivo principale dei politici statunitensi sia quello di raggiungere un sistema commerciale più equo attraverso l'approccio "escalate to de-escalate". Se così fosse, questo obiettivo dovrebbe alla fine mettere da parte alcune delle altre priorità dichiarate (e contraddittorie): generare ingenti ricavi e un significativo reshoring del settore manifatturiero.

  2. Un secondo fattore sarà il mercato obbligazionario. Il ritorno dei vigilanti obbligazionari ha già aumentato notevolmente i rendimenti dei titoli di Stato a lunga scadenza, con quelli giapponesi che hanno raggiunto massimi storici. Date le implicazioni potenzialmente destabilizzanti, l'aumento dei rendimenti obbligazionari potrebbe fungere da forma preventiva di disciplina; in alternativa, mercati ed economie potrebbero diventare ancora più vulnerabili a improvvise variazioni del costo del denaro per governi, aziende e famiglie.

  3. La terza questione è lo scontro tra considerazioni economiche e di sicurezza nazionale. Dietro il pasticcio tariffario c'è un tira e molla tra funzionari economici accomodanti che sostengono la conclusione di accordi e falchi che ritengono che le difficoltà a breve termine siano necessarie per migliorare la sicurezza americana, non da ultimo ostacolando lo sviluppo della Cina. Quale delle due parti prevarrà?

  4. La quarta questione riguarda la reazione degli altri Paesi. L'attuale volatilità indotta dalle politiche statunitensi sta portando alcuni a mettere in discussione la loro consolidata adesione a un sistema commerciale e dei pagamenti incentrato sugli Stati Uniti. In che misura la fiducia di base è stata erosa e la perdita di credibilità dell'America potrebbe accelerare lo sviluppo di sistemi alternativi?

  5. L'ultima questione riguarda il comportamento delle aziende. Gli amministratori delegati useranno questo periodo semplicemente per accumulare scorte o perseguiranno cambiamenti di più ampia portata? Hanno fiducia nella loro capacità di trasferire i costi dei dazi sui consumatori e la loro visione delle spese in conto capitale è cambiata radicalmente?

Estendendo l'analisi oltre quest'anno, ci troviamo di fronte a una questione ancora più ampia.

In effetti, anziché considerare la volatilità indotta dai dazi come la causa principale dell'incertezza economica, dovremmo vederla come un acceleratore di cambiamenti strutturali più ampi.

Alcuni strumenti economici tradizionali erano già stati compromessi dai cambiamenti strutturali nel sistema commerciale internazionale, dalla diversificazione delle catene di approvvigionamento e (in molti casi) dalla priorità data alla resilienza rispetto all'efficienza.

La sicurezza nazionale e le considerazioni interne stavano già prendendo il sopravvento su quelle economiche. La fiducia nelle istituzioni, nazionali e multilaterali, stava già venendo erosa.

Questa inquadratura d'insieme è importante, perché rafforza l'idea che l'economia globale stia percorrendo un cammino accidentato verso una destinazione incerta. Potremmo precipitare verso la recessione, la stagflazione e la frammentazione dei sistemi commerciali e dei pagamenti globali. Oppure potremmo trovarci nelle fasi iniziali di una riorganizzazione in stile Ronald Reagan o Margaret Thatcher che alla fine porterà a maggiori guadagni di produttività, un maggiore potenziale di crescita, deficit e debito meno minacciosi, un ordine commerciale più equo e un sistema di pagamenti più stabile.

Naturalmente, anche gli ottimisti dovrebbero riconoscere che, nella migliore delle ipotesi, si tratta di una situazione 50-50. Nel frattempo, dovremo tutti trovare la resilienza necessaria per sopportare un'incertezza prolungata, e con essa la flessibilità necessaria per prepararci a scenari futuri molto diversi.


Mentre siete sulla vostra sedia a sdraio, oppure sul punte della barca, oppure ancora seduti in un prato verde delle Alpi, noi vi suggeriamo un passatempo alternativo a contemplare il cielo, oppure alla Settimana Enigmistica e persino al videogioco con i Dragoni sullo i-Pad: prendete i cinque punti che sono stati elencati nel primo contributo che avete letto più sopra, ed uniteli con i cinque punti dell’artico9lo che avete appena finito di leggere.

Otterrete il seguente elenco:

  1. incertezze sulle politiche tariffarie

  2. incertezze sulle politiche fiscali e di bilancio

  3. incertezze nei dati sull’andamento delle economie

  4. incertezza sugli aumenti di produttività legati ad AI

  5. il discorso dei dazi e la politica internazionale

  6. il mercato dei Titoli di Stato

  7. le politiche di sicurezza nazionale

  8. il ruolo degli altri Paesi

  9. le reazioni dei vertici delle Aziende.

Il passatempo che noi di Recce’d vi suggeriamo per i primi weekend di estate è il seguente:

  • mettete prima di tutto un po’ di ordine tra i nove punti che vi abbiamo appena elencato: alcuni di questi punti si sovrappongono

  • costruite il vostro scenario per le prossime settimane e mesi: potrebbe esservi utile attribuire le vostre probabilità ai diversi scenari che vedete nel grafico che trovate proprio qui sotto (noi, con il Cliente, ne abbiamo trattato ogni mattina con il Cliente nel nostro The Morning Brief)

  • dato lo scenario per voi più probabile, il più è fatto

  • non vi resta che attribuire, ad ognuno degli asset che oggi si trovano nel vostro portafoglio (BTp, Borsa di New York, oro, petrolio, franco svizzero, eccetera) il rendimento che è coerente con lo scenario che avete in mente

  • e poi fate il medesimo esercizio anche per gli asset che oggi non avete in portafoglio, ma che in futuro potreste prendere in considerazione

  • infine ad ognuno degli asset attribuite un rischio: quanto potreste perdere, su ognuno di quegli asset, se il vostro scenario è sbagliato?

  • ultimo passaggio: dovete attribuire ad ognuno degli asset, sia quelli che già avete, sia quelli che potreste considerare, la percentuale ottima,e sulla base dello scenario prescelto.

Ecco: è in questo modo, con schemi come questo, che otterrete dai vostri risparmi il rendimento più elevato possibile, tenendo al tempo stesso sotto controllo il rischio che vi siete portati in casa facendo le vostre scelte.

Recce’d nel Post di oggi vuole fornirvi un aiuto pratico per completare questo giochino estivo: lo facciamo subito, con un terzo contributo. che potete leggere tradotto per voi qui sotto.

L’autore è Nouriel Roubini, personaggio che il nostro Blog vi ha presentato anni fa, personaggio schierato tra gli avversari della attuale Amministrazione USA, personaggio del quale Recce’d in più occasioni non ha condiviso le conclusioni (tendenti al “catastrofismo”, ed al tempo stesso personaggio che Recce’d segue regolarmente per la indiscutibile competenza)

La lettura vi sarà utile per quale ragion? Roubini qui scegli uno solo, di tutti i possibili scenari 2025, e ne ricava le sue conclusioni.

Che il suo scenario coincida con il vostro, con lo scenario che vi sarete già costruiti con il nostro esercizio, ,oppure che NON coincida con il vostro, è in questa occasione del tutto irrilevante.

Roubini vi fa vedere come si fa.

Vi fa vedere praticamente come, una volta scelto uno scenario, si arriva poi alle conclusioni che riguardano il vostro portafoglio titoli ed i vostri investimento. Per noi di Recce’d, il punto forte di questo articolo che chiude il Post è il rigore e la chiarezza del metodo.

Non vi chiediamo di condividere ne merito: vi suggeriamo, però, di apprezzare ed imparare il metodo.

Amici lettori del Blog, domandatevi se avete le idee chiare, sul metodo per passare dalle vostre svariate e casuali considerazioni sulla politica e sull’economia alle scelte per il vostro risparmio di oggi, di domani e di dopodomani.

Se non avete le idee chiare su questo metodo, state buttando i vostri soldi qui e là a caso.

Se le cose stanno così, i vostri risultati NON saranno buoni, ed il vostro risparmio è a rischio.

Dedicatevi quindi con impegno al giochino che abbiamo preparato per voi, e buon divertimento!.

Fin dall'elezione del presidente degli Stati Uniti Donald Trump lo scorso anno, ho sostenuto che almeno alcune delle sue politiche porteranno a una crescita più elevata e a una minore inflazione nel tempo. Questo vale per il suo sostegno all'innovazione nel settore tecnologico, alla deregolamentazione, alla riduzione delle aliquote fiscali su lavoro e imprese, all'aumento della produzione energetica e ai tagli alla spesa pubblica inutile.

Le altre politiche di Trump, tuttavia, sono stagflazionistiche. Protezionismo e dazi rallenteranno la crescita e aumenteranno i prezzi, così come la repressione dell'immigrazione da parte della sua amministrazione, i tagli ai finanziamenti per la ricerca scientifica, gli attacchi alle istituzioni accademiche, il sostegno ai deficit di bilancio non finanziati, le minacce all'indipendenza della Federal Reserve statunitense, i tentativi disordinati di indebolire il dollaro statunitense, gli attacchi allo stato di diritto e la corruzione. Il marchio degli Stati Uniti è stato gravemente danneggiato, e questo avrà un costo.

Tuttavia, ho sostenuto che la disciplina di mercato (non da ultimo da parte dei vigilanti obbligazionari) e una Fed ancora indipendente avrebbero limitato queste politiche stagflazionistiche, dando il sopravvento ai consiglieri economici moderati di Trump e portando a una de-escalation delle tensioni commerciali attraverso i negoziati.

Questo è ciò che è accaduto. E ora che i repubblicani del Congresso stanno negoziando una legge di bilancio che aumenterà ulteriormente i deficit e i rapporti debito/PIL, la pressione del mercato (attraverso rendimenti obbligazionari a lungo termine più elevati) aumenterà. Trump può cambiare rotta o affrontare un'impennata dei rendimenti obbligazionari che causerà una recessione politicamente dannosa.

Vale la pena ricordare che i primi attacchi di Trump all'indipendenza della Fed si sono già ritorti contro di lui. Le azioni statunitensi sono aumentate e Trump ha smesso di minacciare di licenziare il presidente della Fed Jerome Powell. Sebbene possa sostituire Powell nel 2026, la Fed rimarrà indipendente, perché il presidente è primus inter pares (primo tra pari), piuttosto che un monarca assoluto. La posizione generale del Federal Open Market Committee continuerà a riflettere le opinioni dei membri del suo consiglio.

Per ora, Powell sta facendo un favore a Trump non tagliando i tassi di interesse. La Fed sta ancorando in modo credibile le aspettative di inflazione a fronte delle pressioni sui prezzi indotte dai dazi. Astenendosi ora dai tagli dei tassi, la Fed si riserva la possibilità di tagliarli quando l'economia si indebolirà verso fine anno. Trump non ha motivo di attaccare Powell, se non quello di presentarlo come capro espiatorio per una potenziale recessione da lui stesso causata (proprio come darà la colpa dell'inflazione alla testardaggine del presidente cinese Xi Jinping).

Anche le restrizioni all'immigrazione – e quindi all'offerta di lavoro – imposte dall'amministrazione si ritorceranno contro di loro. Il periodo 2023-24 ha portato una crescita robusta e un calo dell'inflazione a causa di un forte aumento dell'offerta di lavoro attraverso l'immigrazione (in parte clandestina). Con un mercato del lavoro teso, le politiche che riducono l'offerta di lavoratori stimoleranno la crescita salariale e l'inflazione, danneggiando l'economia e la posizione politica di Trump (come l'inflazione dell'era pandemica ha fatto all'ex presidente Joe Biden).

Gli Stati Uniti hanno bisogno di un flusso costante di immigrati (preferibilmente documentati). Trump si è già schierato con Elon Musk sulla questione dei visti H-1B per lavoratori qualificati (un programma su cui la Silicon Valley fa molto affidamento). Sfidando la sua base nazionalista MAGA, Trump ha dimostrato di non essere del tutto all'oscuro della necessità di attrarre talenti stranieri. Nonostante il danno più ampio che Trump sta arrecando al marchio statunitense, l'America rimane la destinazione principale per il 10% dei migliori ricercatori scientifici e talenti imprenditoriali a livello mondiale, grazie al premio retributivo offerto negli Stati Uniti da tre a cinque volte superiore.

Ma tagliare i finanziamenti alla ricerca e consentire una fuga di cervelli non è coerente con il mantenimento del predominio statunitense nell'intelligenza artificiale e in altri settori del futuro. Anche in questo caso, il feedback del settore e la disciplina di mercato sosterranno i consiglieri più calmi di Trump. Inoltre, le crescenti controversie legali contro le deportazioni dell'amministrazione potrebbero spingerla verso politiche migratorie più sensate. Altrimenti, la disciplina di mercato tornerà a farsi sentire con prepotenza.

Anche gli sforzi dell'amministrazione Trump per rafforzare la competitività degli Stati Uniti e ridurre il deficit commerciale attraverso un dollaro più debole probabilmente si ritorceranno contro di loro. Quando i dazi del "giorno della liberazione" annunciati il ​​2 aprile, le minacce di licenziamento di Powell e la previsione di maggiori deficit fiscali hanno causato la caduta del dollaro, seguita a breve da una brusca correzione dei prezzi azionari e da un'impennata dei rendimenti obbligazionari e degli spread creditizi. Trump ha debitamente fatto marcia indietro sui dazi e su Powell, e la stessa disciplina imporrà un aggiustamento fiscale, come abbiamo visto in altre economie avanzate e nei mercati emergenti negli ultimi anni.

L'idea di un "Accordo di Mar-a-Lago" per orchestrare un indebolimento ordinato del dollaro è inverosimile, al limite della follia.

I principali partner commerciali – non ultima la Cina – non aderirebbero mai, e gli stessi amici e alleati dell'America si tirerebbero indietro. Più i mercati si aspettano una svalutazione improvvisa del dollaro, più i rendimenti obbligazionari si impennano. Le proposte di convertire i titoli del Tesoro a breve termine dei non residenti in titoli a lungo termine non funzionerebbero nemmeno in teoria, figuriamoci nella pratica. Indebolire il dollaro attraverso controlli sui capitali in entrata – una tassa sui titoli del Tesoro detenuti all'estero – farà quasi certamente aumentare i tassi a lungo termine e indebolirà l'economia. I vigilanti del mercato semplicemente non permetteranno che politiche così insostenibili vengano perseguite a lungo.

Infine, sebbene l'attacco allo stato di diritto da parte dell'amministrazione Trump sia stato piuttosto aggressivo, le istituzioni democratiche statunitensi – a partire da tribunali e giudici indipendenti – e la società civile rimangono solide e dovrebbero essere in grado di limitare le politiche più estreme. Ancora una volta, non bisogna sottovalutare il potere della disciplina di mercato in questo caso. In altri paesi – come la Turchia – dove gli autocrati hanno minato lo stato di diritto, la reazione dei mercati obbligazionari e di altri mercati è stata implacabile.

In definitiva, o Trump abbandonerà le sue politiche stagflazionistiche per concentrarsi su misure a favore della crescita, oppure le tensioni finanziarie e una recessione faranno perdere al Partito Repubblicano le elezioni di medio termine del 2026.

Si spera che Trump dia ascolto al mercato e smetta di agire seguendo i suoi peggiori istinti. Dovrebbe riconoscere che le innovazioni tecnologiche nazionali promettono di aumentare sostanzialmente il potenziale di crescita degli Stati Uniti. Deve solo togliersi di mezzo.

Nouriel Roubini, consulente senior presso Hudson Bay Capital Management LP e professore emerito presso la Stern School of Business della New York University, è autore, più di recente, di "Megathreats: Ten Dangerous Trends That Imperil Our Future, and How to Survive Them" (Little, Brown and Company, 2022).

Valter Buffo
Detox: "Andrete nel panico"
 

Non ci sono dubbi: siete perplessi.

Non ci sono dubbi: vi state facendo una lunga serie di domande.

Non ci sono dubbi: tra voi lettori, un buon numero soffre di ansie, legate alla oggettiva incertezza del quadro che tutti avete sotto gli occhi.

Una incertezza che, a giudizio di Recce’d, ha le sue radici nella fragilità, sempre più evidente, di un sistema che è arrivato al capolinea: si è chiusa la fase che si era aperta 20 anni fa, dopo il crash “dot.com” del 2000-2003.

Tutti quei soldi arrivati dal nulla, tutti quei soldi magici, tutti quei soldi che piovevano dal cielo … beh, non ce n’è più, lo avete capito bene, vero? Non ci sono più soldi.

Adesso, è il tempo di salire su di un nuovo treno che ci porti attraverso una Nuova Era, verso altre destinazioni, più alte, più sane, più efficienti.

Tutto questo, noi di Recce’d ve lo abbiamo anticipato negli ultimi anni, in molte occasioni.

In particolare, se rileggete tutta intera la nostra serie di Post che abbiamo chiamato Detox, avete già a portata di mano (e di pensiero) tutti i dati e le informazioni che vi sono necessarie per navigare con successo nel mare agitato di questi tempi turbolenti.

Turbolenti, su questo non ci sono dubbi: ma allo stesso tempo, tempi di paralisi. Di certo a lettore di Recce’d non sfugge che la Borsa americana oggi vale quanto valeva un anno fa.

E non sfugge, neppure, che il Titolo di Stato americano USA, oggi, rende quanto rendeva un anno fa. Nessun guadagno sui prezzi, neppure qui. Resta la cedola, ma c’è l’inflazione, e quindi …

Che cosa fare, quindi, dei propri risparmi, oggi?

Noi, in Recce’d, ve lo abbiamo illustrato nel dettaglio, anche attraverso questo Post, ed in particolare nella serie Detox che proseguiamo oggi con questo nuovo Post.

Per i nostri Clienti, poi, lo abbiamo anche messo in pratica: oggi i nostri portafogli modello sono tutti posizionati in modo ideale, per affrontare … l’estate calda 2025 e gli sconvolgimenti che porterà con sé.

In questo Post, abbiamo scelto di mettere all’attenzione dei nostri lettori fatti accaduti la settimana scorsa, fatti che aiutano a capire il presente ed anticipare il futuro.

Inizieremo dalle dichiarazioni dell’uomo che sta a Capo della più grande istituzione finanziaria al Mondo, ovvero JP Morgan. Che ci ha avvisati proprio la settimana scorsa.

“Voi andrete nel panico”.

L'amministratore delegato di Chase JP Morgan, Jamie Dimon, ha lanciato un terribile avvertimento ai mercati, prevedendo una crisi a meno che gli Stati Uniti non adottino misure per affrontare il crescente debito pubblico.

"Vedrete una crepa nel mercato obbligazionario, ok?", ha detto Dimon durante un'intervista al Reagan National Economic Forum in California. "Succederà."

I mercati obbligazionari sono stati scossi dalla prospettiva che la già precaria situazione fiscale degli Stati Uniti peggiori, qualora la legislazione fiscale sostenuta dal Presidente Trump diventasse legge. Una misura approvata dalla Camera aumenterebbe i deficit di bilancio previsti di circa 2,7 trilioni di dollari in un decennio, aggravando un debito pubblico che già supera i 36 trilioni di dollari.

Questo pacchetto fiscale ha spaventato gli operatori obbligazionari, portando a una svendita dei titoli del Tesoro decennali di riferimento, che ha fatto salire i rendimenti di quasi un quarto di punto percentuale al 4,418% questo mese. Moody's Ratings ha revocato agli Stati Uniti il ​​rating di credito tripla A, citando l'imponente debito pubblico. E la debole domanda di titoli del Tesoro all'asta del 21 maggio ha contribuito ad aumentare le preoccupazioni.

Dimon ha osservato che il Covid aveva lasciato i mercati del debito in subbuglio all'inizio del 2020, finché il governo non ha reagito con diverse misure che hanno normalizzato gli scambi e stimolato l'economia. Ma "hanno esagerato enormemente" negli anni successivi, ha affermato.

Le normative imposte alle banche dopo la crisi finanziaria del 2008-2009 hanno lasciato loro una minore flessibilità nel detenere obbligazioni e altri titoli nei loro bilanci. Questo rende difficile per le società finanziarie intromettersi tra venditori e acquirenti quando i mercati del credito si bloccano, ha affermato Dimon.

Il Segretario al Tesoro Scott Bessent e altre autorità di regolamentazione bancaria si sono impegnati ad allentare i requisiti patrimoniali per consentire alle banche di detenere più titoli del Tesoro.

Senza cambiamenti sostanziali, gli Stati Uniti sono diretti verso una resa dei conti, ha affermato Dimon. "E lo dico ai miei regolatori... succederà, e voi andrete nel panico", ha detto. "Non so se sarà una crisi tra sei mesi o sei anni".

Dimon, uno dei dirigenti di Wall Street più longevi, ha una lunga storia di previsioni preoccupanti sulla salute dell'economia e dei mercati finanziari. All'inizio di questo mese, ha affermato che gli investitori azionari non stavano tenendo adeguatamente conto dell'impatto dei dazi di Trump, dato il rimbalzo del mercato dai minimi registrati all'inizio della guerra commerciale. "È un livello di compiacimento straordinario", ha detto.

Una potenziale crisi del mercato del debito non è l'unico scenario che preoccupa Dimon. Crede anche che, se la potenza economica e militare americana dovesse erodersi, la preminenza del dollaro sarebbe a rischio.

"Se non saremo l'esercito e l'economia preminenti tra 40 anni, non saremo la valuta di riserva", ha affermato. "La gente mi dice che siamo enormemente resilienti. Sono d'accordo. Penso che questa volta sia diverso. Questa volta dobbiamo darci una mossa e farlo molto rapidamente".

Dimon ha riconosciuto che la Cina, il bersaglio principale della guerra commerciale di Trump, è un "potenziale avversario".

"Quello che mi preoccupa davvero siamo noi", ha detto. "Riusciremo a darci una mossa, a costruire i nostri valori, le nostre capacità, la nostra gestione?"

Per quale ragione l’uomo che è a capo della maggiore istituzione finanziaria della maggiore economia del Pianeta si espone con parole così forti? Quelle stesse parole che, soltanto un paio di anni fa, venivano accolte da commenti taglienti, accuse di “pessimismo cosmico”, di “catastrofismo”, e di “volere attirare l’attenzione andando controcorrente”, anche e persino dalla stampa nazionale?

Due anni fa, queste erano “idee bizzarre e persino allucinate”.

Oggi, per tutti, è semplicemente

la realtà.

Ma i numeri, allora ed oggi, i numeri sono gli stessi.

Perché un cambiamento drammatico del “consenso”? Come è possibile, in soli 24 mesi?

Date voi stessi, amici lettori, una risposta a questa domanda.

Noi, Recce’d con i propri Clienti, la risposta ce la siamo data da anni: e la risposta, a nostro giudizio si tratta molto semplicemente

della realtà.

Ma se voi avete ancora qualche dubbio, in merito a ciò che dice Dimon, allora leggete un secondo resoconto dell’ìntervento della settimana scorsa.

Come leggerete, le recentissime parole di Dimon non sono apparse rilevanti soltanto a Recce’d.

Jamie Dimon ha avvertito che il mercato obbligazionario statunitense "crollerà" sotto il peso del crescente debito pubblico, invitando l'amministrazione di Donald Trump a indirizzare l'America verso una traiettoria più sostenibile.

L'amministratore delegato di JPMorgan Chase ha dichiarato venerdì di aver messo in guardia le autorità di regolamentazione: "Vedrete una crepa nel mercato obbligazionario". Ha aggiunto: "Vi dico che succederà. E voi andrete nel panico. Io non andrò nel panico. Andrà tutto bene".

L'avvertimento del capo della più grande banca statunitense sui crescenti rischi per il mercato obbligazionario statunitense – che fissa i costi di indebitamento a migliaia di miliardi di dollari di debito a livello globale – sottolinea come Wall Street stia diventando sempre più preoccupata per l'aumento dei livelli di debito pubblico. Questo accade mentre il Congresso sta esaminando la "grande, splendida" proposta di bilancio di Trump, che, se approvata, si prevede aumenterà notevolmente il deficit federale.

Anche prima dell'introduzione della legge, votata dalla Camera la scorsa settimana e attualmente in fase di revisione al Senato, il Congressional Budget Office aveva previsto che il debito statunitense in percentuale del PIL avrebbe superato il picco degli anni '40 nei prossimi anni.

I titoli di Stato statunitensi a lungo termine sono stati messi sotto pressione dalle preoccupazioni fiscali, con il rendimento dei titoli del Tesoro trentennali scambiato a circa il 5% da poco più del 4% all'inizio del 2024. Anche l'agenzia di rating Moody's questo mese ha revocato agli Stati Uniti il ​​rating di credito tripla A.

Il mercato dei titoli del Tesoro USA è cresciuto da circa 5.000 miliardi di dollari nel 2008 a 29.000 miliardi di dollari oggi, grazie al taglio delle tasse da parte del governo e all'aumento della spesa pubblica, in particolare durante la pandemia di coronavirus. Il mercato è il più profondo e liquido al mondo e beneficia da tempo del privilegio del dollaro come valuta di riserva mondiale.

Ma con l'aumento del debito, anche la domanda ha subito un duro colpo. Gli investitori stranieri si sono costantemente ritirati dal mercato dei titoli del Tesoro negli ultimi dieci anni, una mossa accelerata dalla politica tariffaria di Trump.

Dimon ha affermato che le crescenti tensioni geopolitiche, le guerre commerciali e l'impennata dei livelli di debito in tutto il mondo significavano che le "placche tettoniche" dell'economia mondiale si stavano spostando.

"Non so proprio se tra sei mesi o sei anni ci sarà una crisi", ha dichiarato al Reagan National Economic Forum in California, invitando il governo a "cambiare la traiettoria del debito" e sollecitando le autorità di regolamentazione ad allentare le restrizioni sulle banche per aumentare la loro capacità di negoziazione di obbligazioni. "Penso che possiamo migliorare tutto, incluso questo, semplicemente cambiando e modificando alcune di queste norme e regolamenti".

I suoi commenti fanno eco a quelli del presidente di Goldman Sachs John Waldron, che all'inizio di questa settimana ha descritto il crescente deficit statunitense come "piuttosto preoccupante" e ha avvertito che il suo impatto sul mercato obbligazionario rappresentava "il grande rischio macroeconomico in questo momento".

"Penso che avremo deficit più ampi, a perdita d'occhio, e avremo più prestiti del Tesoro", ha affermato Waldron, che è il vice di Goldman Sachs dietro David Solomon. "Il rischio maggiore è che i tassi a lungo termine continuino a salire e che il costo del capitale nell'economia aumenti, diventando fondamentalmente un freno alla crescita economica", ha dichiarato alla conferenza Bernstein di New York.

L'onere del debito statunitense supererà il picco della Seconda Guerra Mondiale nei prossimi anni, afferma un osservatorio

La legge di bilancio di Trump aggiungerà almeno 3.300 miliardi di dollari al debito statunitense entro il 2034, secondo l'agenzia indipendente Committee for a Responsible Federal Budget. Moody's ha avvertito che la legge spingerà il deficit statunitense dal 6,4% del PIL dello scorso anno a poco meno del 9% entro il 2035.

Dimon ha anche affermato che gli Stati Uniti dovrebbero aumentare la tassa sui carried interest, una disposizione del codice fiscale che avvantaggia i dirigenti del private equity.

Trump ha appoggiato l'idea, che è da tempo un obiettivo dei Democratici, incluso l'ex presidente Barack Obama. "Dovremmo assolutamente tassare i carried interest", ha detto Dimon. Alla domanda se prenderebbe in considerazione la possibilità di candidarsi, Dimon, 69 anni, ha risposto che lo farebbe "se pensassi di poter davvero vincere, cosa che non credo".

Avete letto sul vostro social a proposito di queste dichiarazioni di Jamie Dimon?

Ne avete letto sul vostro abituale quotidiano?

Ne avete sentito parlare al TG? Oppure al GR?

No? Nulla?

Eppure così, a prima vista, sembrano parole piuttosto forti, non vi pare?

Sarà forse che Dimon dice e racconta cose di poca rilevanza pratica? .Che è un uomo che vive sulla Luna?

Sarà forse che Dimon è un uomo che vive isolato, dalle tensioni dei mercati finanziari, dalle stanze dell’economia, dai salotti della politica?

Oppure, forse, sarà che ai TG, ai GR, ai quotidiani, ed anche ai politici, risulta più semplice ogni giorno, giorno dopo giorno, creare una cortina fumogena, e parlare a voi di “tariffe, tariffe, tariffe”, quasi come a farne un reality show della TV, ottenendo così di distrarre voi, lettori ed investitori, da vicende, dati ed informazioni che hanno per voi e per i vostri risparmi un peso molto maggiore, ma sono allo stesso tempo molto più difficili da risolvere, o anche solo da rettificare e modificare?

Le parole di Dimon che abbiamo appena letto, amici lettori, incidono ed incideranno, in modo pesante, sul vostro stesso benessere finanziario.

Anche sul benessere di chi, oggi, ha creduto di mettersi al sicuro mettendo nel proprio portafoglio di tioli soltanto BTp e Bund.

Inseguendo una illusione di “sicurezza” che, proprio come spiegato da Dimon qui sopra, oggi non esiste più.

L’immagine che segue vi chiede: siete anche voi preparati al 5,50% di rendimento sul decennale USA? Oppure anche voi state fumando una sigaretta nel deposito degli esplosivi?

Di che cosa fare per i vostri portafogli titoli, Recce’d ha già scritto nelle ultime settimane, nei Post precedenti di questa seria Detox.

E ne scriverà ancora, nei prossimi Post della serie, che proseguirà per l’intera estate. Questi, sono problemi che non se ne vanno, e che condizioneranno tutti i mercati finanziari (inclusi BTp e Bund) per anni.

Se non ne siete convinti. Se siete tra quelli che pensano che “aggiustando un po’ di qua ed un po’ di là, e con qualche intervento di emergenza, poi ne verranno fuori e tireranno avanti come sempre”, se vi hanno illusi del fatto che “ormai i mercati finanziari non reagiscono più a questo tipo di stress”, noi oggi vi faremo leggere un intervento molto significativo, sella settimana scorsa, che vi dettaglia che cosa si potrebbe fare, per uscire dalla “crisi del debito”.

Resterà poi a voi, al nostro lettore, di valutare. Valutare se queste cose si potranno fare. Ed eventualmente in quali tempi.

Ma soprattutto valutare in che modo, questo lungo e faticoso processo inciderà sui prezzi in Borsa, sui prezzi dei Titoli di Stato, sui cambi tra le maggiori valute, e sul prezzo di oro, petrolio, platino, grano, mais e succo di arancia.

L’articolo che leggete di seguito è scritto da Peter Orszag: oggi è amministratore delegato e presidente di Lazard. Ma è stato anche direttore dell'Office of Management and Budget e del Congressional Budget Office, negli anni della Presidenza Obama.

Dunque, lo chiariamo subito, chi scrive è un oppositore di Trump: a nostro giudizio, però, questo sui contributo non è influenzato in modo determinante dalla posizione politica

Noi lo giudichiamo, invece utile per comprendere nel dettaglio quali sono, oggi, le opzioni pratiche per le prossime (inevitabili) iniziative della Amministrazione Trump.

Una seconda Amministrazione Trump che oggi attraversa il momento peggiore della sua storia e che obbliga lo stesso Trump a … inventarsi qualche cosa, a fare una o più mosse “a sorpresa”.

Sceglierà forse una delle opzioni indicate qui sotto nell’articolo?

Oppure sceglierà ancora una volta di … andare oltre i limiti e rompere tutti gli schemi?

E come modificheranno, queste sue nuove “bizzarrie”, i prezzi sui mercati finanziari?

E qui il tema ritorna ad essere quello iniziale. Dimon dice: “Voi andrete nel panico”. E si rivolge proprio a voi, che state leggendo questo Post. Non si rivolge al Clienti di Recce’d, che in qualsiasi scenario si presenti nel prossimo futuro, NON andranno nel panico. Ed al contrario, ne ricaveranno benefici importanti.

Vi pare poco?

Vi suggeriamo di iniziare a pensarci oggi stesso, utilizzando come quadro di riferimento il grafico che, più in basso, utilizziamo oggi per chiudere il Post, e che da domattina ogni mattina discuteremo con i Clienti in The Morning Brief.


Per molti investitori globali, l'onnipotente dollaro non sembra più così onnipotente in questo periodo, in parte perché la situazione fiscale americana è significativamente peggiorata. Questa sfida fiscale è una delle chiavi degli obiettivi commerciali dell'amministrazione Trump, poiché gli Stati Uniti non riusciranno a ridurre materialmente i propri deficit commerciali se non ridurranno anche il deficit di bilancio.

Per anni è stato ragionevole ignorare le lamentele dei più ansiosi sui deficit. Con tassi di interesse molto bassi, la mancanza di alternative particolarmente interessanti ai titoli del Tesoro statunitensi per gli investitori e una reazione tiepida del mercato ai continui drammi di Capitol Hill sull'innalzamento del limite del debito, coloro che lamentavano l'insostenibilità della spesa in deficit e dei livelli di debito sembravano gridare al lupo, e non poco. Anche da ex direttore del bilancio della Casa Bianca, sono diventato scettico riguardo ai loro infiniti avvertimenti.

Non più.

Due cose sono cambiate: in primo luogo, il lupo ora è in agguato molto più vicino alla nostra porta. I deficit annuali del bilancio federale si attestano al 6% del PIL o più, rispetto a ben meno del 3% di dieci anni fa. I tassi di interesse sui titoli del Tesoro decennali sono più che raddoppiati – circa il 4,5% ora contro poco più del 2% di allora – e nell'attuale anno fiscale si prevede che il governo spenderà di più per il pagamento degli interessi che per la difesa, Medicaid o Medicare. Esatto: il nostro indebitamento ora ci costa più ogni anno di ciascuna di queste importanti ed essenziali voci di bilancio.

Nel frattempo, il debito federale detenuto dal pubblico, escludendo le partecipazioni della Federal Reserve, in percentuale del PIL è aumentato di circa un terzo dal 2015. Il Congressional Budget Office, che un tempo ho diretto, prevede che entro il 2029 il nostro debito in percentuale della nostra economia crescerà a livelli senza precedenti dagli anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale. Tutto ciò si sta verificando in un contesto caratterizzato da un sistema politico ancora più polarizzato, da crescenti tensioni con i detentori di debito estero e da una minore fiducia nelle tutele americane che hanno promosso il dollaro come porto sicuro mondiale.

I rischi posti dal nostro governo fortemente indebitato sono oggi più elevati che in passato, ma è anche vero che nessuno degli effetti negativi temuti si è ancora verificato. È difficile trovare un'economia moderna con un tasso di cambio liberamente fluttuante e un debito denominato nella propria valuta, entrambi di cui godono gli Stati Uniti, che sia inadempiente. Allora perché lanciare l'allarme ora?

Perché l'assenza di prove non è prova di assenza. Nessun'altra nazione ha avuto la combinazione di fattori che definisce l'attuale posizione fiscale americana, quindi i precedenti non sono utili.

La nostra capacità di sostenere ampi deficit si basa sullo status del dollaro come valuta di riserva globale. Quasi un terzo del nostro debito è di proprietà estera, per un totale di quasi 9.000 miliardi di dollari. In questo contesto, la ridotta propensione per il debito statunitense da parte degli investitori stranieri può far salire i tassi di interesse e rendere la nostra posizione fiscale ancora più difficile.

Sebbene il declassamento del debito statunitense da parte di Moody's a un livello inferiore al precedente rating tripla A abbia fatto notizia e abbia temporaneamente scosso il mercato obbligazionario, il declassamento in sé non avrà un impatto duraturo sugli investitori. Per ora, come si dice, i titoli del Tesoro rimangono la camicia sporca più pulita degli investitori.

La situazione può cambiare, tuttavia, sia con l'evoluzione dei rapporti tra gli altri paesi e il nostro, sia con l'aumento della spesa pubblica e l'emissione di altro debito da parte di altri governi, soprattutto in Europa. Se la Germania, ad esempio, contrae maggiori prestiti per finanziare la spesa per la difesa e le infrastrutture, i suoi titoli di Stato potrebbero diventare un'alternativa più valida ai titoli del Tesoro per alcuni investitori.

Un secondo cambiamento rilevante per il deficit di bilancio è l'attenzione dell'amministrazione sul deficit commerciale, che, per definizione, si verifica quando un paese consuma più di quanto produce. Ovvero, quando i risparmi di una nazione sono relativamente bassi.

I deficit di bilancio sottraggono denaro al risparmio nazionale e, a prescindere da ciò che accadrà con l'attuale serie di dazi, l'America farà fatica a ridurre significativamente il suo deficit commerciale complessivo senza ridurre il proprio deficit di bilancio.

A meno che non si verifichi un cambiamento di fondo nei modelli di risparmio nazionale, gli aumenti tariffari saranno compensati da variazioni del tasso di cambio che scoraggiano le esportazioni e incoraggiano le importazioni, con un effetto netto minimo o nullo sulla bilancia commerciale complessiva. In effetti, il cambiamento più radicale necessario per modificare i modelli di commercio globale è che la Cina riduca il suo tasso di risparmio registrando maggiori deficit di bilancio (che ridurrebbero i suoi surplus commerciali) e che gli Stati Uniti facciano il contrario riducendo il loro deficit di bilancio (che ridurrebbe il nostro deficit commerciale). Tuttavia, non possiamo riporre le nostre speranze su un deficit maggiore della Cina.

Per gestire i rischi associati alla nostra situazione fiscale e raggiungere gli obiettivi commerciali dell'amministrazione, cosa dovremmo fare?

  1. In primo luogo, dovremmo accettare di essere la valuta di riserva mondiale e apprezzare l'esorbitante privilegio associato a tale status. Scott Bessent, il Segretario del Tesoro, ha recentemente affermato che questa è la posizione dell'amministrazione.

  2. In secondo luogo, dovremmo eliminare il limite al debito. La sua esistenza non contribuisce in modo significativo a imporre la disciplina fiscale e crea solo inutili distrazioni.

  3. In terzo luogo, quando abbiamo avuto la possibilità di consolidare bassi tassi a lungo termine, avremmo dovuto estendere la scadenza del debito del Tesoro, come Robert Rubin, Joseph Stiglitz e io avevamo raccomandato più di quattro anni fa: "Data la profonda incertezza sul futuro dei tassi di interesse e l'attuale pendenza della curva dei rendimenti", abbiamo suggerito che estendere le scadenze del debito avrebbe "attenuato le conseguenze di una variazione relativamente improvvisa dei tassi di interesse".

Purtroppo, i nostri timori si sono concretizzati. Nonostante l'aumento dei tassi da allora, dovremmo comunque tentare di estendere alcune delle nostre scadenze ora, sia per ridurre il rischio di dover rifinanziare così tanto debito ogni anno, sia per tutelarci da ulteriori aumenti dei tassi da qui in avanti. L'idea di base è quella di indebitarsi per periodi di 30 anni o anche più lunghi, piuttosto che indebitarsi per un breve periodo e poi dover rifinanziare ogni pochi anni.

  1. In quarto luogo, una crescita più elevata sarebbe d'aiuto. È possibile che, come ha affermato l'economista Nouriel Roubini, "la tecnologia trionfi sui dazi" e che la crescita sarà maggiore in futuro grazie alla rivoluzione dell'intelligenza artificiale. Ma non sappiamo molto su come influenzare significativamente la crescita attraverso cambiamenti politici, quindi inseriamo questo nella categoria "speranza" piuttosto che in quella "strategia".

  2. Infine, c'è molto che potremmo fare – ma probabilmente non lo faremo – per generare risparmi fiscali nei nostri ampi programmi di welfare e aumentare le entrate. Potremmo, ad esempio, adottare misure più aggressive per pagare la qualità piuttosto che il volume dell'assistenza sanitaria e promuovere il supporto basato sull'intelligenza artificiale per il processo decisionale dei medici, il che ridurrebbe l'ampia e per lo più ingiustificata variabilità nelle modalità di pratica dell'assistenza sanitaria in tutto il Paese. Il risultato sarebbe una riduzione della crescita dei costi dell'assistenza sanitaria senza compromettere i risultati sanitari.

Nella sua forma attuale, la legge di bilancio in discussione al Congresso non farebbe altro che aggravare le sfide che ci troviamo ad affrontare, espandendo ulteriormente il deficit. Ma il primo passo verso la salute dei conti pubblici non è un disegno di legge o una proposta politica specifica.

È riconoscere che i nostri rischi fiscali sono allarmanti per quanto sono elevati elevati e che non faremo molti progressi sul deficit commerciale se non riduciamo il suo gemello, il deficit di bilancio.


Valter Buffo
Detox: ecco in che modo vi prendono in giro. Ogni giorno
 


Trump ci garantisce intrattenimento, distrazione, sorprese e colpi di scena. Come ogni buon conduttore di programmi TV, del tipo Amadeus, Bonolis, Carlo Conti.

Se però guardiamo alla cosa come investitori, è ovvio ed evidente che tutti veniamo presi in giiro.

Ogni giorno.

Dai media tradizionali, ed anche di più dai social, a tutti noi, vengono raccontate storie e cose … che non esistono.

Come evitare di farsi prendere in giro, nelle prossime settimane e mesi?

Vi occorrono: competenza, strumenti di analisi, metodo, esperienza, e informazioni selezionate. Proprio ciò che Recce’d vi mette a disposizione.

Che cosa lo dimostra?

Tutto.

Tutto ciò che abbiamo ed avete visto, nel 2025, sui mercati finanziari.

Ed in particolare, tra aprile e maggio 2025. Ed in particolare, negli ultimi otto giorni. Dal downgrade deciso da Moody?s, fino ai fatti di venerdì 23 maggio 2025.

Volete smetterla, di farvi prendere in giro? Oppure, volete continuare a farvi prendere in giro?

Contattate Recce’d, e noi risolviamo per voi.

Ora riparliamo dei fatti da venerdì 16 maggio a venerdì 23 maggio: fatti che dimostrano tutte le nostre affermazioni.

Partiamo dalla sera di giovedì 22 maggio: alla Camera USA viene approvato il “Big, Beautiful Bill”: che poi è, semplicemente, la Manovra Finanziaria degli Stati Uniti.

Il rendimento del titolo di Stato USA, scadenza decennale, sale nel pomeriggio, fino al 4,625%.

Poi, verso la fine della giornata, compare “un misterioso compratore”.


Chi sarà, questo misterioso compratore di Titoli di Stato, che interrompe il rialzo dei rendimenti (discesa dei prezzi) e fa quindi scendere il rendimento del decennale al 4,55%?

Non lo sappiamo. Noi in Recce’d però abbiamo una idea precisa.

E non basta: il giorno dopo, venerdì 23 maggio, prima che i mercati USA aprano (ovvero alle 2 del pomeriggio in Europa) arriva di nuovo un misterioso compratore. Improvvisamente, i rendimenti scendono ancora, fino al 4,50%.

Lo vedete sotto nel grafico.

E poi?

E poi, arriva lui: ovviamente, arriva Trump.


Arriva Trump, alle due del pomeriggio europeo, ed annuncia un aumento delle tariffe che colpiscono l’Europa. Un aumento clamoroso: 50% .

Subito: dal 1 giugno. Tra una settimana, sette giorni.

Dopo la retromarcia di Pasqua, e quella con la Cina di due settimane fa, adesso una nuova svolta a 180 gradi.

Riparte così la “guerra delle tariffe”.


I vostri risparmi, ovviamente ne risentono: subiscono danni, per questo ritorno della “guerra delle tariffe”. Danni e perdite su tutti i fronti.

Come si può difendere il proprio risparmio da questa guerra e da questi danni?

La prima cosa da fare (come sempre) è capire. Capire bene cìò che sta accadendo, ai vostri soldi ed ai vostri risparmi, e perché sta accadendo.

E prima di tutto: non seguire gli indicatori sbagliati. Quelli che a voi vengono spinti dalle Reti dei promotori finanziari, e poi dai social, e poi dai TG, e poi dai GR.

Non guardate agli indicatori sbagliati: vi porteranno (se li seguite come vi viene suggerito dalle Reti dei promotori e dai social) alla rovina finanziaria.

Come dicevamo, dovete anche capire: dovete capire bene ciò che sta accadendo e per quali ragioni. Dovete comprendere, nei dettagli, la realtà che è intorno a voi.

Per noi di Recce’d, oggi è tutto molto chiaro: infatti, se rileggete tutta la serie chiamata Detox proprio qui nel Blog, i fatti degli ultimi otto giorni non vi sorprendono, ma per nulla.

Noi di Recce’d vi avevamo anticipato mesi fa proprio ciò che state leggendo adesso, oggi, sui social e sui quotidiani e settimanali.

Per amore di sintesi, oggi noi lo ripetiamo ma soltanto con l’immagine che segue.

Ce lo dicono i fatti delle ultime ore: Trump è molto, molto, molto sensibile ai rendimenti dei Titoli di Stato, e certamente tutti i lettori di Recce’d hanno capito perfettamente il perché grazie al nostro Blog.

Trump è sensibilissimo, come tutto il Mondo ha visto: ed appena siamo arrivati al 4,625% si è attivato: ha mandato qualcuno a comperare Titoli di Stato, e subito dopo, 12 ore dopo, ha ritirato fuori dal cassetto le tariffe.

Insieme alle tariffe, ha ritirato fuori il rischio recessione.

Trump lo sa perfettamente, che tutto non si può avere. Tutto ciò che lui vorrebbe, oggi non lo piò fare. Neppure lui: l’uomo politico più potente al Mondo.

Trump ha questo chiarissimo obbiettivo: non lasciare che il rendimento dei Titoli di Stato salga sopra il 5% sulla scadenza a dieci anni.

Mai, per nessuna ragione.

Ma la Borsa, come la prende?

Nell’immediato, non bene.


Nell’immediato, la reazione della Borsa non è positiva anche perché, nelle stesse ore in cui annunciava nuove tariffe per l’Europa, Trump annuncia anche nuove tariffe … per Apple e Samsung (25%).


Il titolo Apple, nel pre-mercato, non la prende bene. Riportare la produzione in America? Significa raddoppiare i costi.


Operativamente, quindi, noi che cosa facciamo adesso per i portafogli modello di Recce’d?

Il nostro consiglio operativo più importante, che in tutte le precedenti puntate della serie Detox abbiamo presentato con dettagli e supporti di analisi, può essere sintetizzato come si legge qui sotto (ed anche nell’immagine che avete visto proprio all’inizio, in apertura di questo Post).


Un secondo consiglio operativo, anche questo ripetuto da Recce’d in decine di precedenti occasioni: investire non è semplice, il mercato finanziario non è semplice, fare risultati positivi è molto difficile, evitare i rischi oppure almeno limitarli è difficilissimo.

Non affidate il vostro risparmio ed il vostro futuro a gente improvvisata. Non affidate i vostri investimenti a Reti la cui “missione” è unicamente quella di “piazzarvi la merce” e “collocare prodotti” come polizze, GPM e Fondi Comuni.

Siate più informati, più attenti, più disciplinati nelle scelte, e più metodici nella gestione del vostro portafoglio titoli: rifiutate di farvi prendere ancora in giro dai bla-bla dei social, dai bla-bla dei promotori finanziari, ed anche dalle “sparate” di Trump e degli altri politici di mestiere.

Ribellatevi a tutto questo: riprendete in mano il vostro futuro, ed il vostro benessere finanziario

Per essere consapevoli, come detto, occorre essere sempre attenti, utilizzare strumenti analitici adeguati, ed anche fare “esercizio” delle proprie capacità.

Proprio per fare esercizio, vi proponiamo un allenamento. Abbiamo preso ad esempio della attuale comunicazione finanziaria un recente (inizio settimana scorsa, e quindi prima dei fatti del venerdì 22 maggio) articolo dal quotidiano La Repubblica.

Potete leggere l’articolo qui sotto.

Vi invitiamo ad allenarvi nel modo seguente: leggete questo articolo con attenzione, e poi ragionate.

L’articolo mette in fila una serie di temi, tutti collegati al momento dei mercati finanziari. Se lo scorrete velocemente, vi sembrerà “tutto chiaro”, ma solo dopo pochi minuti …. vi verranno alla mente molti dubbi, ed un pensiero: “ma alla, non ci ho ancora capito nulla, che cosa dovrei fare adesso?”.

Il che purtroppo è confermato proprio dai fatti: dai fatti di venerdì 23 maggio 2025, che nell’articolo (pubblicato il 20 maggio) non potevano esserci. Al tempo stesso, avrebbe potuto essere, nell’articolo, messi all’attenzione del lettore i fatti davvero rilevanti. Invece, l’articolo di La Repubblica martedì scorso diceva che era tutto a posto:

Non c’è la sensazione tra gli operatori che nel breve periodo si possa assistere a un “Sell America” generalizzato sui 4,5mila miliardi di dollari tra Treasury e Repo custoditi nei fondi monetari mondiali. E nemmeno tra quelli che giacciono nei portafogli delle banche.

La smentita è arrivata entro le 48 ore successive, ed è arrivata proprio dai mercati.

L’allenamento che noi proponiamo per il vostro weekend è il seguente: leggete con maggiore attenzione questo articolo, e scoprite quali sono i fattori decisivi, quelli che l’articolo dimentica di evidenziare. Quali sono, i fattori che il giornalista non ha preso in esame? E per quale ragione non li ha considerati?

Scrivete le vostre risposte a Recce’d, e non volentieri corrisponderemo con ognuno di voi, subito. Vi faremo sapere come è andato il vostro allenamento.

I conti Usa.

Gli Stati Uniti viaggiano con un deficit di 2mila miliardi di dollari l’anno e sono seduti su una montagna di debiti pari a 36mila miliardi, oltre il 120% del Pil. E di questi 28,8 miliardi (100% del Pil) sono in mano al pubblico.

Un buffetto ai mercati, un monito alla politica alla vigilia del dibattito sulla legge di bilancio, il “Big beautiful bill” che per passare alla Camera deve raccogliere il consenso di quasi tutti i 220 repubblicani contro i 213 democratici.

Il recente downgrade che l’agenzia di rating Moody’s ha inflitto agli Stati Uniti, portando il giudizio sul debito da tripla A ad Aa1, può essere letto come un avvertimento a chi in questi giorni deve decidere il destino dei conti degli Stati Uniti.

Per gli investitori il cambio di giudizio ha avuto invece poco valore, perché non è giunto inaspettato, anche se il rendimento dei titoli decennali e trentennali hanno avuto un leggero sobbalzo con un rincaro di 10-15 punti base. Il costo del Treasury a dieci anni è salito oltre il 4,5%, mentre quello del titolo a 30 anni oltre il 5%.

Non c’è la sensazione tra gli operatori che nel breve periodo si possa assistere a un “Sell America” generalizzato sui 4,5mila miliardi di dollari tra Treasury e Repo custoditi nei fondi monetari mondiali. E nemmeno tra quelli che giacciono nei portafogli delle banche.

Per tre motivi.

1) La maggior parte dei mandati di investimento delle case d’affari e delle società di gestione non richiede un rating tripla A per i titoli del Tesoro Usa. Li possono quindi comprare e tenere senza problemi di policy e godersi la crescita del rendimento.

2) Le banche, grandi compratrici di titoli di Stato, non dovranno ridurre la presenza di bond statunitensi nei loro portafogli perché dal punto di vista del rischio tra tripla A e Aa1 non cambia nulla.

Ai fini del calcolo del capitale ponderato per il rischio, ovvero del capitale che devono avere per far fronte ai rischi del loro portafoglio, la Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea ha sancito che tra i due livelli non c’è nessuna differenza.

3) Chi ha offerto titoli Usa in garanzia per avere prestiti non dovrà ridurne il valore nominale (haircut) o venderli per cambiarli con altri.

Per la Depository Trust and Clearing Corporation (Dtcc), la società americana che fornisce servizi di compensazione e regolamento delle transazioni tra i partecipanti ai mercati finanziari, quando si fa riferimento alla classe di attività dei titoli del Tesoro Usa, l’haircut dipende dalla scadenza e dal tipo di titolo, ma non dal rating.

Se poi a questi tre motivi si aggiunge che la Federal Reserve può sempre intervenire comprando titoli di Stato Usa in caso di vendite fuori controllo, ben si capisce come per chi opera sui mercati non ci sia alcun pericolo sui Treasury Usa che anzi sono liquidi e offrono oggi un rendimento ancora maggiore.

Il monito alla politica. Il cambio di rating di Moody’s ha più un valore mediatico e suona come un avvertimento alla politica, perché è giunto pochi giorni prima del discorso di Trump al Congresso che avvia il dibattito sulla legge di bilancio.

Gli Stati Uniti viaggiano con un deficit di 2mila miliardi di dollari l’anno e sono seduti su una montagna di debiti pari a 36mila miliardi, oltre il 120% del Pil. E di questi 28,8 miliardi (100% del Pil) sono in mano al pubblico.

La deriva. Solo dieci anni fa, il debito era di 12,6mila miliardi, un terzo del valore attuale. Gli interessi per mantenerlo si mangiano il 14% dell’intera spesa statunitense, la seconda voce dietro le spese sociali (22%), davanti a Difesa (13%), Medicare (13%) e Health (13%).

Big beautiful tax bill. Il taglio di Moody’s: uscite certe, entrate incerte.

Uno scenario tutt’altro che confortevole a cui si somma la nuova proposta di legge di Trump, denominata “Big beautiful bill”, che punta, tra le altre cose, a prorogare i tagli fiscali che il presidente aveva introdotto durante il suo primo mandato nel 2017 con il Tax Cuts and Jobs Act (Tcja) e in scadenza quest'anno.

Secondo i calcoli del Congressional Budget Office e del Joint Committee on Taxation, la proroga dei tagli fino al 2028 costa da sola 4mila miliardi a cui si devono aggiungere ulteriori 800 miliardi di tagli di tasse.

Nei piani della Casa bianca, queste mancate entrate dovrebbero essere in parte compensate da tagli alla spesa e dai limiti ai sussidi verdi per complessivi 2mila miliardi, e da una crescita economica che questi incentivi dovrebbero favorire.

La manovra così come è stata presentata non ha convinto l’agenzia di rating Moody’s che nel motivare la sua scelta ha proprio citato le politiche fiscali che se da un lato confermano i tagli delle tasse, non possono certo garantire che la spesa verrà sicuramente ridotta.

“Non riteniamo – hanno scritto gli analisti di Moody’s – che le attuali proposte di bilancio in esame porteranno a riduzioni significative della spesa obbligatoria e dei disavanzi pluriennali. Nel prossimo decennio prevediamo deficit più elevati a causa dell'aumento della spesa sociale, mentre le entrate pubbliche rimarranno sostanzialmente invariate”.

Il risultato sarà l’aumento del deficit che Moody’s stima al 9% a fine 2035, e di conseguenza anche il debito.

Il mondo è bello perché è vario. Goldman Sachs contro Moody’s.

Eppure non tutti la pensano così. La banca d’affari Usa, Goldman Sachs, stima che i tagli fiscali saranno annullati dalle entrate legate ai dazi, che avranno però effetto negativo sulla crescita, nonostante la spinta degli incentivi previsti in manovra.

Secondo Goldman Sachs, il Big beautiful bill aumenterà il deficit nei prossimi anni rispetto alla politica attuale di circa lo 0,4% del Pil, ma sarà più che compensato dalle entrate dei dazi.

Le importazioni nel 2024 sono state pari all’11% del Pil: “Supponendo – scrive Goldman Sachs - che diminuiscano in modo approssimativamente proporzionale all'aumento dei dazi di 13 punti percentuali, le tariffe dovrebbero garantire un aumento di circa l'1,25% del Pil, ovvero di circa 400 miliardi di dollari nell'anno fiscale 2026”.

Alla luce di questi conti e ipotizzando anche che i tagli di tasse previsti fino al 2028 verranno mantenuti per tutti il decennio, Goldman Sachs stima che, grazie alle entrate aggiuntive dei dazi, il deficit non aumenterà come prevede Moody’s fino al 9%, ma rimarrà al di sotto del 7%. E così anche il debito che in rapporto al Pil rimarrà in linea coi livelli attuali.

Insomma, secondo la banca d’affari Usa saranno i dazi a salvare il bilancio Usa dal tracollo, sempre che non impattino la crescita a tal punto da trasformarla in recessione.

Valter Buffo